Se ti appare la Madonna e ti dice di costruire una chiesa sul terreno su cui stai cercando con non poca fatica e decisamente troppe stranezze di fare un rilievo catastale, cosa fai? Se quel lavoro ti serve per arrivare a fine mese, in un periodo in cui devi dividerti tra la separazione dal tuo compagno, le domande di una figlia dodicenne, le litigate a voce alta e sberle volanti con la madre di Gesù che solo tu hai la maledetta fortuna di vedere e il volto sbalordito e preoccupato dell’amico imprenditore che ti ha fatto il favore di assumerti, come ne esci fuori?
Se lo immagina Gianni Zanasi con “Troppa Grazia”, anno 2018, opera debuttata alla Quinzaine des Realisateurs del Festival di Cannes, candidata a tre David di Donatello e ad un Nastro d’argento, oggetto piacevolmente informe, come lo sguardo del suo regista, schivo, disabituato al luogo comune, non inutilmente estetico, spesso spostato per ambientazioni, spunti e tipologia di personaggi sempre un passo fuori la gretta normalità (si pensi al rocker Valerio Mastandrea di Non pensarci o al più recente La felicità è un sistema complesso).
Troppa grazia, dunque, sguscia dal mistico al sociale e viceversa, inventandosi una premessa originale e potente, che viene focalizzata da subito oltre l’ambito religioso e si contestualizza su tematiche ambientali, di sfruttamento territoriale a sfavore delle ricchezze territoriali, ponendo l’accento anche sulle difficoltà e le contraddizioni del lavoro moderno, tipiche di un paese soffocato da burocrazie, più spesso rivolto all’inerzia che all’iniziativa, cronicamente disattento rispetto alle generazioni future e sprezzante di ogni forma di bellezza.
Alba Rohrwacher è Lucia, geometra pignola e decisa, che riceve il messaggio di una Maria, Hadas Yaron, neo profuga straniera, con occhi turchesi, presenza di grazia ma modi spiccioli, stanca di non essere ascoltata, creduta e compresa. Il contesto in cui ci muoviamo è fatto di villette cittadine a schiera inondate di natura, tipiche di un paese non di una metropoli.
Al suo interno gravitano Arturo, Elio Germano, compagno di Lucia, operaio elettricista specializzato, cultura medio bassa, animo semplice, cuore innamorato, ma con una scappatella da farsi perdonare; Carlotta Natoli, l’amica confidente, comica suo malgrado, da cui Lucia si rifugia con la figlia Rosa per sfuggire all’apparizione che sembra perseguitarla psicologicamente e fisicamente; e Paolo, Giuseppe Battiston, imprenditore rampante, a capo del progetto edile da realizzare sul campo delle controversie, stanco di aspettare la burocrazia e i tempi biblici di un’amministrazione sempre più rintanata nei propri ottusi uffici e distaccata dal suolo che dovrebbe gestire e conoscere.
E di fatto l’appezzamento in questione non è né conosciuto, né felicemente gestito: lasciato a se stesso, come un campo profughi perfetto per una Madonna rifugiata, non combacia mai nelle sue rilevazioni tecniche, ogni volta i metri misurati cambiano, così come nelle vecchie mappe che lo riguardano i punti di riferimento non coincidono, sono palesemente fallaci.
C’è uno scarto tra la vita rappresentata dalle frenetiche esistenze quotidiane e quella arcaica del sottosuolo, che ha tempi e percorsi tutti propri, così come c’è una differenza tra la vita interiore e quella esteriore, la fede personale e la laica routine giornaliera, come ancora c’è un divario tra pensiero dominante e pensiero artistico che sta nella capacità ermeneutica del presente, nella qualità preveggente, nell’intuito volto a proteggere, coltivare e custodire il bello, insito in ogni forma d’arte.
Ecco queste tre direttive si ravvedono come triplici metafore della storia che Zanasi sceglie di raccontare, per mano e bocca della Rohrwacher, in grado di navigare tra toni comici e surreali in godibile armonia, vitale ed accorata quanto serve, rispetto a ciò che la circonda; un mondo fluido, fotografato nel delicato passaggio da materiale a visionario e viceversa, ritagliato a sua perfetta misura, che è poi misura d’uomo, prettamente autentico, senza strafare.
Si alternano dialoghi fulminanti, tète a tète spassosi e surreali, suggestioni di contorno, semplici ed evocative, compresi gli assoli o i duetti di teatro fisico in cui Lucia e la Madonna letteralmente si picchiano, perché nessuna delle due vuole cedere i propri intendimenti. Non casuale, ma profetico e contemporaneo, è il ritratto di una Madre di Dio sfollata, che richiama all’attenzione della terra, ignorata, mistificata e martoriata, in ogni angolo di mondo, non a supremi, impalpabili ideali o a soggettive questioni morali; è una donna impaziente, cocciuta e recidiva, un vettore contemporaneo perfetto, quasi fosse fatta della stessa sostanza degli uomini, diretta risultante delle loro pervicaci, costanti disattenzioni e prevaricazioni.
In una fotografia assolata, satura di colori sgargianti che non passano inosservati soprattutto nei colori di capelli, occhi, incarnato e labbra dei protagonisti, come a ricordare e a smentire insieme la classica iconografia agiografica, trovano spazio anche alcune digressioni non sempre necessarie, che appesantiscono non utilmente la durata, ma che al contempo rivelano uno sguardo non addomesticato, beatamente inopportuno, innamorato e cristallizzato dall’incanto di un rimando tematico o di una bellezza naturale; bilanciano queste lentezze, momenti più imprevedibili, svolte atipiche, rimbalzi di situazioni, raccolti e raccontati da una quotidianità familiare e lavorativa di provincia, tutto sommato facile da governare e da immaginare.
La famiglia di Lucia non è perfetta: suo padre è un jazzista leggendario, bislacco e sorridente, il suo Arturo è un uomo ostinato, coi paraocchi e il cuore tenero, sua figlia è la promessa di riscossa che i suoi diciotto anni di madre sola all’epoca non le permisero di capire a fondo e lei stessa è laica e pragmatica perché così le ha insegnato la vita non speciale che crede le sia capitata. Più o meno della stessa sostanza è costituita la Sacra Famiglia, una madre giovanissima, non particolare e non tradizionale, un compagno non sempre adatto a lei, un Padre con la maiuscola, un figlio oltre il leggendario.
In “Troppa Grazia”, Zanasi li intreccia e li sovrappone, con schietto umorismo e netta vivacità, rendendo attiva e non descrittiva, la domanda che tutti i destinatari storici di apparizioni sacre ad un certo punto si pongono, ossia perché a me?
Non è un convincimento fideistico ad interessare, è un percorso personale che rimette al centro con intelligenza, teneramente non troppo calcolata, il futuro buono dell’uomo e il suo naturale patrimonio di bellezza e fragilità.