Quando credi in Dio, non c’è niente di più disturbante del diavolo. Di lungometraggi in grado di sfruttare questa certezza, sublimandola in terrore, ne abbiamo a profusione. La maggior parte rientra nel genere horror, che per motivi puramente etimologici ha sempre rappresentato lo sbocco ideale per questa paura ancestrale. Eppure, negli ultimi decenni, il bisogno intrinseco di differenziarsi dalla massa ha portato il demonio in tutta una serie di nuove pellicole, attenuando o rimuovendo l’elemento orrorifico in favore della tensione. È il caso dell’Avvocato del Diavolo, film basato sull’omonimo romanzo di Andrew Neiderman.
Infarcito di simbolismi, pieno di riferimenti e permeato da un’atmosfera di costante disperazione, la pellicola di Taylor Hackford rappresentò nel 1997 un nuovo modo di incutere terrore, ma anche, e purtroppo, una buona occasione parzialmente sprecata. Vediamo perché.
Kevin Lomax non è un semplice avvocato. È una specie di macchina. Un tritacarne del diritto che massacra e divora tutto ciò che gli si presenta davanti. È giovane, arrogante e sicuro di sé. In tutta la sua vita non ha mai perso un caso. E ormai, dopo decine e decine di processi conclusi con la vittoria, Kevin teme la sconfitta più di ogni altra cosa. Ma, come per tutti, arriva un giorno in cui vincere sembra impossibile. Il suo cliente è un insegnante sotto accusa per delle molestie, e la vittima è una ragazzina spaventata ma coriacea.
L’insegnante è colpevole ma questo a Kevin non interessa. L’unica cosa che gli interessa è vincere. E infatti vince. Stavolta però il prezzo da pagare non sarà il biasimo degli sconfitti, ma un nuovo mondo che all’improvviso gli si aprirà davanti. John Milton, il misterioso proprietario di uno studio legale di New York, gli offre un posto al sole di notevole importanza. Dalla piccola Gainesville, in Florida, Kevin e sua moglie Mary Ann si trasferiranno nella Grande Mela. Sono entusiasti, carichi e innamorati. Ma non hanno idea di cosa li aspetti.
L’Avvocato del Diavolo basa la propria forza sulla tensione. Fin dai primi minuti risulta evidente che il fine della pellicola non è spaventare, ma tenere lo spettatore incollato allo schermo. Il progressivo ma inesorabile decadimento psicologico dei personaggi sembra trascinare tutto verso una sempre più evidente sensazione di follia. Su questo elemento il film punta molto, forse troppo. L’idea del contesto americano borghese, in parte classico in parte moderno, segna il punto di partenza. Kevin e Mary Ann prenderanno casa in una elegante palazzina con tutti gli agi e le comodità, mentre dei vicini premurosi fanno in modo che il loro ambientamento sia facile ed immediato.
In questo senso, lo scenario ricorda molto da vicino quello di Rosemary’s Baby di Roman Polański, anch’esso tratto da un romanzo omonimo. Entrambe le pellicole cristallizzano un assunto: Per fare paura, serve la normalità. È proprio nelle situazioni ordinarie e quotidiane, fatte di sorrisi, buone maniere e cortesia che si annida il demonio.
In questo, L’Avvocato del Diavolo riesce quasi alla perfezione. Il film, nonostante una lunghezza forse eccessiva, coinvolge per la capacità di inserire negli stessi fotogrammi sia sanità che pazzia, causando dubbi nella mente dello stesso spettatore. A rendere possibile tutto questo, ci pensa lui: il ragazzo venuto dalla strada. È quasi ironico constatare, soprattutto in un cast formato da attori come Keanu Reeves e Charlize Theron, quanto Al Pacino sia superiore a tutti gli altri.
La sua performance dà letteralmente un senso a tutto il film, rendendo impossibile immaginarne una versione priva di lui. Il suo personaggio, John Milton, illumina la scena, facendo sì che la pellicola vada al ritmo del suo respiro. Non a caso, sono proprio le fasi in cui manca, quelle più difficili da digerire.
La regia funziona, tra alti e bassi, fino al finale, momento in cui il lungometraggio sembra cedere il passo ad una specie di sogno contorto, dissipando in parte l’ottimo lavoro fatto in precedenza. Quella sensazione di lento decadimento e subdola tensione si scioglie all’improvviso, lasciando in bocca il sapore amaro e un po’ ridicolo della confusione.
Al Pacino, in questa sequenza, dà forse il meglio di sé, ma lo fa a fondo perduto, in un clima surreale dove diventa più interessante ammirare la sua interpretazione che seguire il dipanarsi dell’intreccio.
L’Avvocato del Diavolo è un film pieno di contraddizioni. Da una parte, un thriller riuscito pieno di momenti coinvolgenti, dall’altra l’impressione costante di stare assistendo ad una ricca ed elaborata pagliacciata.
Se quest’ultima frase fosse una bilancia, la pellicola penderebbe di più verso la prima parte. Come tutti i film diventati di culto, anche questo non sarà mai in grado di mettere d’accordo la critica. Allo stesso tempo, però, il clima tenebroso e la presenza scenica del demonio potrebbero rappresentare dei motivi sufficienti per dare fiducia alla pellicola. Poi nel dubbio, se siete indecisi, guardate Al Pacino.
Voto Autore: [usr 3,0]