L’occupazione determina la serenità?
The Last Shift, la cui visione è disponibile su Netflix, è un film inaspettatamente sorprendente. Tra la miriade di novità e le produzioni altisonanti che la piattaforma offre, la pellicola rischia di passare inosservata a un occhio poco attento. Eppure, la sua efficacia è indiscutibile e merita assolutamente una chance.
Non sarà uno dei primi film che viene in mente di guardare dopo una lunga giornata di lavoro ma la visione è consigliata per il semplice fatto che The Last Shift tratta con i guanti proprio quest’ultima tematica; un qualcosa in cui tutti stanno dentro (o magari ci si stanno anche semplicemente affacciando). Quel mondo del lavoro che tanto spaventa (così pieno di contraddizioni com’è) è l’asse centrale del film che dimostra di prendere le cose sul serio e vanta uno svolgimento scenico che proficuo è dir poco.
Chi può dire di non aver mai fatto i conti con la propria occupazione? Chi può vantare una situazione lavorativa ai limiti della perfezione? Certo vi sono esempi di stili di vita simili, ma la media della forza lavoro incontra costantemente difficoltà e scogli da superare. Al di là di tutto, è sempre il piglio con cui si affrontano queste avversità a fare la differenza: un lavoro poco gratificante è in grado di imbrigliare i sogni e arginare le speranze di vita di tante persone ma con lo spirito giusto ogni situazione è surclassabile.
The Last Shift pone questo quesito: come si può fuggire da una situazione poco gratificante? I sogni esistono? E se sì, quanto sono raggiungibili?
The Last Shift – La Trama
A metà tra un impianto drammatico e una deriva comedy, The Last Shift inizia subito in media res: si fa la conoscenza di Stanley (Richard Jenkins), un anziano inserviente di un fast food locale che sta per andare in pensione dopo trentotto anni di onorato servizio. Il peso del tempo gli si legge addosso, dato che i suoi capelli sono quasi del tutto cascati, zoppica e non è molto avvezzo al dialogo con gli altri. La colpa di tutto ciò è anche la conduzione di una vita decisamente monotona, piena di impegno e dedizione ma povera di slanci. Le giornate scorrono infatti tutte uguali tra la preparazione certosina di panini e il contatto al drive in con clienti scontrosi o maleducati.
Dopotutto però, quello è il suo lavoro. Per quasi quattro decenni il fast food di provincia gli ha permesso di andare avanti e questo ha generato in lui una forma di attaccamento aziendalista che vuole onorare fino alla fine. Nonostante gli acciacchi, prenderà tempo per portare a termine la sua missione: servire il cliente, offrire lui un’esperienza di consumo che possa dargli gioia. La qualità del cibo è una fissa in tal senso: Stanley, infatti, incarta i burger sempre con la stessa ripetitiva tecnica ma con un impegno mai in dubbio.
Proprio nel frangente in cui la sua domanda di pensionamento è pronta, il destino gli gioca un brutto scherzo: prima di ritirarsi dovrà seguire nel suo percorso di formazione lavorativa il giovane Jevon (un ragazzo problematico indirizzato verso il fast food dal suo programma di recupero sociale). Non si sa molto di lui al suo arrivo ma ciò che è certo è che costituisce di fatto un impedimento al meritato riposo di Stanley che già sta programmando di rifugiarsi in Florida (per essere accolto dal suo caldo e dalle sue spiagge).
Essendo la sua permanenza al Chicken and Fish prolungata, inizia così l’affiancamento al ragazzo che si dimostra da subito svogliato e poco motivato. Non coglie la rispettabilità del servizio che sta svolgendo e, oltretutto, ne percepisce la sostanziale inutilità. Friggere di continuo patatine scadenti è qualcosa che, a suo modo di vedere, non ha nulla di nobilitante. Quella che può sembrare una provocazione diventerà ben presto per Stanley un motivo di illuminazione.
L’atteggiamento insolente di Jevon altro non è che un modo per presentare al suo superiore un punto di vista differente. Sommerso dalla frittura e dal cibo spazzatura non ha pensato al fatto che la produttività che gli veniva richiesta, non solo non è stata di fatto ripagata, ma era una trovata della direzione per mantenere alto il morale e intascare al contempo ogni guadagno. Comincia così a emergere il passato del ragazzo che risulta essere uno scrittore freelance per un blog sociopolitico. Le sue idee non sono estremiste ma sicuramente di parte: punito per dei commenti avversi alle autorità e polemici nei confronti della scala sociale che vuole i bianchi perennemente in posizioni di comando, avrebbe dovuto affrontare il probation program prima di ritornare a una sana quotidianità.
I due scopriranno di avere poco in comune. Ciò non toglie che la loro esperienza di lavoro non possa apportare dei benefici ad entrambi. Il loro venirsi incontro passa necessariamente attraverso fasi difficili ma la conciliazione di intenti tenderà sempre a prevalere; anche e soprattutto quando Stanley, che comincia a vedere le cose da una prospettiva differente, cade in tentazione e cerca di farsi giustizia da solo. Dopo l’ennesimo no e a seguito di un’altra mancata concessione, quella tanto sognata pensione comincia ad apparire come un obiettivo maledetto.
The Last Shift – La Recensione
The Last Shift spinge lo spettatore al limite della rassegnazione: dall’inizio alla fine offre spunti per ragionare su quante difficoltà si possono incontrare sul posto di lavoro e non ci si schioda da questo punto di vista. Tutto è strutturato, in maniera specifica, sull’esperienza individuale degli impiegati del fast food che, a ben vedere, non riescono a rivelare entusiasmo in quello che fanno (essendo il ristorante dove lavorano un luogo quasi abbandonato dai meccanismi sindacali. Simbolo assoluto di questa routine spossante è la cura con cui Stanley e Jevon si dedicano all’incartare panini.
Pur essendo un film cinico non è del tutto pessimista, riuscendo anche a indirizzare il pubblico verso riflessioni più spassionate. Si parlava del lavoro come fulcro delle vicende. Il film è abile nel mostrare i sentimenti che si celano dietro a una carriera non soddisfacente in pieno. Il piglio dell’opera, infatti, sembra costantemente orientato verso una piattezza di fondo che stenta a decollare ma che, al contempo, coinvolge chi assiste in maniera proficua.
I dialoghi tra i due protagonisti sono flemmatici e ridotti all’osso. Non hanno un’articolazione che possa lasciar presagire un miglioramento della condizione di entrambi. Diventa poi tutto drammaticamente condivisibile nel momento in cui gli eventi prendono proprio la piega dichiarata dai due a voce (mentre si scambiano le solite e consuete lamentele).
Lo slancio comedy invece è una gradevole sorpresa, dato che in The Last Shift non mancano prese in giro irrisorie finalizzate sempre a evidenziare un certo dato di fatto. I clienti maleducati o forzatamente simpatici informano che il disagio che si vive all’interno di quella cucina si vede anche all’esterno e lancia dei segnali inconfondibili. Ottima anche la figura di Jevon: un giovane americano caraibico che si fa emblema, non solo delle lotte di classe, ma anche di una spinta anti-sistemica forte. Lui il primo a criticare il posto di lavoro, lui l’unico a fare da anello di congiunzione tra fuori e dentro
The Last Shift passa ovviamente anche attraverso lati negativi evidenti: la trama non prende mai veramente il via, arenandosi in un concerto perenne di botta e risposta che talvolta può stancare. Non vi è un evento scatenante in grado di far cambiare registro alla narrazione e bisogna attendere la fine per vedere dove vanno a parare le chiacchierate che i due protagonisti hanno portato avanti per tanto (troppo) tempo. L’atto finale rappresenta una scintilla di disperazione generata con una fretta eccessiva (arrivati a questo punto bisognava forse arrivare a ciò in maniera più graduale e soddisfacente per lo spettatore).
Stanley dimostra alla fine di avere gli attributi e di essere in grado di mettere sé stesso davanti agli interessi aziendali. Il cambio di passo è vivace ma ugualmente frettoloso: quasi si percepisce l’arrivo di una nuova figura, non del direttore della cucina che è stato presente fino ad allora. Nonostante tutto, The Last Shift è un’opera concreta. Non ha una regia ammaliante, o uno script variopinto. Eppure, il cast ci sta alla perfezione in quella che può essere un’elegia lavorativa adatta a tutti: vengono presi dei concetti del fast food che potrebbero benissimo essere applicati a qualsiasi altro tipo di azienda. Lo spirito con cui viene fatto ciò è tuttavia diametralmente opposto alla magnificazione della catena di montaggio applicata nelle cucine che si vede in The Founder. Lo spettatore (qualunque sia il suo impiego) è indirizzato verso quanto più non funziona nelle dinamiche lavorative. Al giorno d’oggi, se si dovesse individuare un focus prevalente, si può dire che sia venuto meno quel classismo caratteristico di società più arretrate della nostra e le policy aziendali costringono l’interezza della forza lavoro a fare una scelta: aderire oppure preservarsi.