Dimmi chi cerchi e ti dirò dove andare; dimmi come cerchi e ti dirò da dove vieni. Questa è la storia di Searching, un thriller confezionato ad arte per un tipo di società iperconnessa ed ipertecnologica, costruita, cercata e diffusa in modo progressivamente ossessivo proprio negli ultimi quarant’anni, al punto da generare oggi assuefazione comprovata, bulimia del mezzo e totale dipendenza. Sia che si tratti l’effimero, sia che il bisogno risulti essenziale; surplus equivale a salvavita nel mondo parallelo del digitale, laddove ogni cosa è merce, a partire dall’individuo.
Questa è anche la storia di David (John Cho) coreano, come tutta la sua famiglia, totalmente integrato sul suolo statunitense, nello specifico a San Jose, California; da due anni ha perso sua moglie, la dolce Pam (Sara Sohn), per via di un linfoma; da due giorni non riesce più a mettersi in contatto con la figlia Margot (Michelle La), di sedici anni, scomparsa improvvisamente dopo aver passato la notte a studiare biologia con un gruppo di amici.
Tre chiamate senza risposta la notte della sparizione e oltre trentasei ore senza alcun cenno, nonostante messaggi e chiamate multiple: così David inizia la sua ricerca (searching) ossessiva e disperata per rintracciare la ragazza, un’adolescente di indole buona e animo dolente, oltre la patina apparente della tranquillità, bambina non più bambina rispetto alla quale il padre scopre, con sofferenza, di non conoscere più vita e pensieri dal giorno della morte della madre, lutto enormemente segnante per entrambi.
La detective e agente di polizia Rosemary Vick (Debra Missing) piomba all’alba di questa ricerca per supportare l’uomo e le indagini ufficiali, nel tentativo di scongiurare una macabra fine. In questo modo si avvia il frenetico e sempre più preoccupato snodo di una classica storia di wanishing, scomparsa, tra media risonanti a caccia di scoop, false alleanze, indizi fuorvianti, epifanie, errori, capovolgimenti di situazione, depressioni, ansie, iperprotezione, ragazzi difficili e l’insidiosa accessibilità del web in cui tutto sembra essere alla portata di tutti; guida l’azione la necessità di rivalsa di un genitore che non si rassegna a perdere un altro pezzo di se stesso, forse il più importante, senza lottare; pesa nello specifico l’impotenza della sua condizione e il non aver condiviso un malessere che era comune, pensando di fare la cosa giusta.
Dunque queste le fattezze da manuale di un noir innestato all’interno di un dramma familiare, dalla trama fin troppo costruita, architettura strutturale più che leggibile e finale ingenuo che corre eccessivamente, semplifica e sgonfia le alte aspettative di partenza. Alte perché l’intero racconto, che in sé non ha niente di particolare, ha il suo punto di forza sbalorditiva nella modalità con cui viene rappresentato.
Tutto accade tramite uno screencast spurio, ossia una registrazione degli output provenienti da differenti mezzi elettronici, in questo caso almeno un paio di computer, vari cellulari, schermi televisivi, telecamere di sicurezza a circuito chiuso, note o mail vocali, e quant’altro: non esiste un vero e proprio girato, classicamente inteso; si parte dall’immagine di un desktop qualunque, con file, cartelle, foto, password, pin, utenti, username, dati, calendari excel, e da lì si ricostruiscono le sorti attive e passive di una piccola famiglia, alle prese con un terribile ed angoscioso problema, solo e soltanto attraverso la prospettiva di chi è davanti o meglio dietro ad un computer.
Mouse che si aggirano e cliccano icone, schermate con articoli, foto, video da youtube e non solo, link apribili, scaricabili, estensioni, geolocalizzazioni, reimpostazioni, controlli di sicurezza ed aggiramento degli stessi, dati sensibili e, soprattutto riprese video di varie cam, ossia telecamere, strumenti con cui l’elettronica di oggi scandisce ed impera nel nostro quotidiano, attraverso cui si dialoga, ci si conosce, si lavora in tempi di smart-working e non solo. Sono occhi disponibili in ogni rivenditore, a prezzi sempre più competitivi, posizionabili ovunque, azionabili in qualunque momento, nello smanioso, romantico ed a-romantico, spesso patologico, tentativo di sostituire con un chip di nuova generazione la presenza umana.
Il risultato sono inquadrature essenziali, parzialmente deformate, cui siamo ormai abituati, imposte dall’uso comune di smartphone, che raccontano in presa diretta umori, cambiamenti, eventi dell’immediato, comunicazioni ordinarie e straordinarie, in un reportage emotivo che, in questa sede sperimentale, nonostante l’effetto straniante del mezzo utilizzato, risulta funzionale al climax emotivo, ricostruendo la cronaca della ricerca con efficacia potente ed immersiva, pur in assenza praticamente totale di scambi concreti, quasi fossimo protagonisti all’interno di un videogioco, pieno di attese e trappole, non controllabile e spaventoso.
Searching, questo particolare esordio cinematografico, presentato con successo al Sundance Film Festival del 2018, è opera del giovanissimo Aneesh Chaganty, astuto ingegno indiano di seconda generazione, non a caso ex dipendente Google, della cui originalità e presenza di spirito stilistico, visto il precedente, ci si attende ancora di sentir parlare.
Non che sia una novità nel settore: abbiamo conosciuto film anteriori e posteriori appoggiati a questo o a similare stratagemma narrativo, basti pensare ad Unsane di Sodebergh tutto girato in brevissimo tempo tramite iPhone, o ad Unfriended, prodotto dal russo Bekmambetov, (presente nella stessa funzione anche in Searching), girato interamente tramite MacBook Air.
L’ espediente narrativo non rende il film pioniere in assoluto, ma lo promuove in modo più che meritorio, grazie anche al montaggio accorto e sincopato al punto giusto di Johnson, e la dedizione interpretativa del bravo John Cho e dell’intensa Debra Missing, in lotta costante con i rispettivi demoni.
Molteplici le riflessioni che la visione di Searching porta con sè. Ancora una volta a fare la differenza non è il cosa, ma il come, secondo una direzione artistica ormai più che stabile, che sposta l’attenzione e la responsabilità sul comparto registico e anche autoriale-testuale del prodotto cinematografico e sulla qualità interpretativa.
Lampante, inoltre, la prova di abitare in un mondo connesso ed isolato al contempo, in cui ogni social, Facebook, Instagram, Tumblr, restituisce falsa testimonianza ed erronea percezione di sé, come specchio deformante con cui si vende un’immagine dannosa ed ossessiva, delatrice di felicità fittizia, mentre la vera condivisione resta affare privato e difficilissimo, soprattutto in un’epoca che affida la soluzione del problema ad un algoritmo: il risultato sono conseguenze dispersive, lesive e non rafforzative del legame umanitario, capaci di assumere risvolti pesanti se non nefasti quando ne abusano giovani ragazzi (si pensi al cyberbullismo, ad ogni forma di violenza virtuale).
Non c’è modo di difendere la propria privacy: lo scambio dati è pane commerciale sdoganatissimo ed inquinatissimo, ogni autorizzazione al trattamento è collegata ad altre tracciature e la riservatezza non esiste più, anzi, è sinonimo di sospetto. Il searching del titolo è più o meno segno testuale e simbolo di ogni motore di ricerca e sono infinite le volte in cui durante il film il cursore scorre su google cercando una località, un nome, un indirizzo, un numero di telefono, un’identità: niente è inaccessibile.
La memoria e l’identità umana fanno oggi affidamento su hardware più o meno grandi, capaci di far trasparire parti di noi, che nemmeno padre e figlia sanno più comunicarsi: sparire in questo contesto assume quasi il sapore di medicina necessaria affinchè due anime, legate naturalmente e innaturalmente allontanatesi, possano ri-cominciare a starsi accanto, oltre le reciproche ferite ed inquietudini.