Ispirato, per definizione di molti, all’estetica di Herzog e, contemporaneamente, allievo dell’epica etico-morale di Olmi, Re Granchio è il fortunato debutto al lungometraggio per la coppia Alessio Righi e Matteo Zoppis.
Lavoro artigianale, di complessa gestazione, debitore e citatore di atmosfere che hanno fatto storia e sostanza, Re Granchio prende il volo dalla tradizione orale di una racconto-leggenda locale e lo rende odissea di un’anima inquieta, irrisolta, renitente al compromesso, istintivamente schierata contro i poteri precostituiti, insofferente alla gerarchia e all’ordine in generale, spirito romantico, combattivo, avventuroso e passionale, capace di inseguire i propri ideali fino all’autodistruzione, in nome di una purezza oggi scomparsa, che vive, appunto, solo nella narrazione popolare.
Re Granchio – Trama
E’ la storia di Luciano (Gabriele Silli), l’ubriaco del paese, ricostruita nelle parole goffe e plastiche al contempo di un gruppo di cacciatori del giorno d’oggi, intervistati dagli stessi registi nelle campagne della Tuscia. Tra quei piccoli borghi, a fine Ottocento, è vissuto il protagonista del film, uomo iconico e maledetto, figlio del dottore del luogo, giovane additato come sbandato, un debosciato senza destinazione precisa, perennemente sfatto dall’ alcool, facile alla lite e allo smarrimento dei sensi, polemico nei confronti del principe, ovvero dell’autorità locale più alta, cui spettava il controllo dell’intero territorio.
Proprio entrando in conflitto con questo signorotto, Luciano causa un incidente dalle conseguenze irrimediabili, che coinvolgerà Emma (Maria Alexandra Lungu), l’unica ragazza da lui amata, tra quei campi beati e contadini e sarà costretto a fuggire oltreoceano.
Lo ritroviamo nella Terra del Fuoco a scontare la propria pena e a cercare la propria salvezza, sulle tracce di un misterioso bottino d’oro, affiancato da una banda di marinai del luogo che non si fanno scrupoli a tradirsi a vicenda pur di accaparrarsi il tesoro.
Re Granchio – Recensione
Premiére colma di interesse e successo alla Quinzaine di Cannes 2021; stesso grado di attenzione alla 39. edizione del Torino Film Festival, candidatura come migliori registi esordienti agli scorsi David di Donatello per la coppia Righi-Zoppis, Re Granchio schiude il proprio magnetismo agli occhi dei sognatori di cinema con la potenza del proprio racconto, classico e viscerale e la bellezza di immagini che tridimensionano ambienti trasformandoli da luoghi geografici in spazi spirituali.
La natura accoglie e lascia emergere le sagome dei personaggi, li culla, li inciampa, li trattiene, li nasconde, li isola, li atterra, li amplifica, li eleva ad eroi ed eroine di un teatro piccolo e grande insieme, contemplandone le sorti altalenanti, la loro finitezza spicciola, l’emotività sfrenata o il sordo bigottismo.
L’eroe sbagliato, anarchico, sognatore, che non si vende e non si compra, votato alla verità ruvida e selvaggia dei sentimenti e della natura, viene ostacolato, sabotato e boicottato in terra propria e straniera, fino alla sua resa ascetica, radicale ed inevitabile.
In ogni angolo di mondo le orme di Luciano sono braccate da un male che lo inquina e lo corrode, dal rimorso, dalla miseria dell’umano, un tradimento continuo di cui il suo spirito sente il peso fin dall’inizio e da cui chiede scampo e ragione.
Dove può trovare rifugio un peccatore per scappare dal proprio errore, o per avere conforto od oblio? Tra le braccia distorte dell’alcool, nella distanza oceanica di una terra ed una lingua sconosciute ed ostili, nel miraggio di un tesoro splendente che più che mondare la coscienza sporca, le ridia la luce perduta.
Re Granchio è l’epopea di un anarchico colpevole, un sognatore ammalato, un uomo in astinenza dal bello e dalla libertà, sentimenti primitivi ed attualissimi, che rinfrescano e ricollocano nella memoria di chi osserva le priorità che distinguono un tempo giusto da un tempo sbagliato.
Righi e Zoppis approfondiscono, accolgono ed accudiscono la tradizione orale delle narrazioni del posto, a volte tirando un filo maiuetico, parola per parola, dalle bocche degli intervistati, seduti alle loro tavolate di gruppo, memori sapienti della propria esperienza di documentaristi; altre volte lasciandosi gonfiare dai ricordi romanzati di una comunità che in certe leggende trova, fonda ed inventa se stessa.
Non a caso nella parte girata in Italia, nel viterbese, molti abitanti locali sono diventati anche attori, contribuendo ad aumentare la genuinità di un contesto che sembra fotografia parlante ed efficacissima di un’altra epoca, cronologicamente differente, ma intrinsecamente specchio di molti nostri limiti presenti.
L’ingiustizia sociale, la diffidenza verso il diverso, l’appiattimento del senso critico, l’avidità materiale, l’egoismo soverchiante, l’empatia schiacciata, l’amore evanescente, la mancanza di Dio: un ritratto fisico per una riflessione metafisica che non cessa di parlare al presente.
Re Granchio è scisso in una tripartizione strutturale e stilistica, netta, priva di intermediazioni o giustificazioni. La prima parte, quella “italiana” è una sorta di melodramma pastorale, dai toni languidi e malinconici; nella Terra del Fuoco si ricostruisce il mood guardingo ed affamato dei cercatori d’oro, disperati alla caccia selvaggia di una fortuna chissà dove nascosta; la terza parte diventa un set western per il redde rationem finale, con cenni ispirati a classici del genere, in cui risaltano la calma e il bagliore della vendetta.
La conclusione è una lunga eco in cui si presta voce ad una fugace confessione definitiva, un grido di soccorso biblico e terrigno, in cui risuona il bisogno di ogni essere vivente di avere e al contempo essere sprovvisto di una direzione esistenziale, intangibile nonostante si sia arrivati alla fine del mondo con il proprio fardello avvelenato sulle spalle e non aver mai assaggiato un angolo di pace. Un destino che più umano è difficile immaginare.
L’epopea di Luciano possiede la classicità dei topos, la grandezza dell’ambizione di chi la dirige, lo sturm un drang che ha dato cemento alle colonne delle storie (comprese le nostre) e le difficoltà produttive di uno sguardo che non si accontenta, ma si innamora e vuole restituire una dimensione immersiva e totalizzante del proprio habitat.
Contributi italiani, francesi ed argentini sono stati spesi per quest’impresa non facile, più folle che razionale, più volte sobbalzata da problematiche logistiche e tecniche, ma sempre portata avanti con un’eroica volontà di darle luce.
Ra Granchio – Cast
Simone D’arcangelo firma una fotografia magistrale e bellissima che richiama il contrasto caravaggesco e lo contrappunta in modo deciso ed iconico con eleganza ancestrale in molte inquadrature; le scene in Italia stregano per colori e bilanciamento dell’uomo nella natura, mentre lo sguardo dedicato al Sud America possiede bagliori lividi e spazi a perdita d’occhio, sassaie e paludi, arbusti e poche vestigia di natura viva, contorni che emergono alla luce con la durezza dei disperati.
Silli porta su di sé la storia con zelo fisico e psicologico costante: nella sua preparazione il duello con le condizioni climatiche dei luoghi delle riprese (duello condiviso con la troupe, ovviamente), la memoria dello spagnolo/argentino da utilizzare nei dialoghi della seconda parte, ed una naturale propensione alla plasticità, all’ideale delle forme che la sua attività di scultore gli tributa come automatica qualità.
Alla sua sensibilità specifica, nascosta dai folti peli della barba, ma totalmente esposta negli occhi turchini e fulminei, si oppone in bilanciamento inedito l’energia fresca, disinibita e diretta della Lungu, totalmente a suo agio nella parte, viva e verace, fiammella dal tragico ingiusto destino.
Re Granchio è una fatica luminosa, a tratti commovente,che dimostra intenti di una maestosità profonda e al contempo intrinsecamente tradizionali, una barca a remi scatenatrice di burrasche, un inno al classico cinema immaginifico, agli apologhi morali degli antichi, alla parte di coscienza non già contaminata che dovrebbe ancora appartenerci.