Si dice che ogni film nasca per uno scopo. Alcuni fanno ridere, altri intimoriscono, ma tutti, si spera, nascono per una stessa motivazione: emozionare il destinatario. A più di un secolo dalla nascita del cinema i film tentano ancora di impressionare, stupire e attrarre l’attenzione dello spettatore ma non sempre il risultato finale coincide con le aspettative. Non è il caso di Posh, un film discutibile per i contenuti, ma indiscutibilmente considerato un prodotto ad alto tasso emotivo. Il soggetto debutta a teatro nel 2010, ideato e diretto da Laura Wade, e viene riadattato per il cinema nel 2014 (anno di uscita della pellicola) dalla regista danese Lone Scherfing e dalla Wade.
A ridosso della cena annuale del Riot Club, otto studenti dell’università di Oxford, già membri attivi del gruppo, sono alla ricerca di due nuovi adepti da includere all’interno dell’organizzazione in modo da raggiungere il numero dei componenti originali del primo Riot Club. I dieci giovani benestanti organizzano una serata ricca di eccessi, tra cibo, alcool, droga e sesso, che si conclude, come da manuale, con la distruzione del locale in onore dei loro antecedenti. Tra i volti freschi (sia per la giovane età che per le poche esperienze sul grande schermo) emergono principalmente quelli di Miles Richards (Max Irons) e Alistair Ryle (Sam Clafin), i novellini sottoposti al rito d’iniziazione.
Posh prende narrativamente due pieghe diverse, a seconda del protagonista presente sullo schermo. Da un lato mostra la dolcezza e la semplicità, che caratterizzano Miles, dall’altro l’astuzia e invidia dell’uomo, incarnata da Alistair. Sul piano temporale invece il dramma viene diviso in tre atti, come in uno spettacolo teatrale, in cui introduzione, svolgimento ed epilogo coincidono con la crescita e la caduta dei personaggi. La preparazione iniziale occupa un arco narrativo molto spesso, come se l’iniziazione della quale sono “vittime” i protagonisti si estendesse anche alla platea che, anestetizzata, viene proiettata verso ciò che avverrà dopo.
Il fulcro della vicenda rappresenta il cuore pulsante del film e viene approfondito solamente una volta arrivati alla parte centrale, che coincide con il così detto punto di non ritorno (azione che stravolge gli eventi e cambia le relazioni tra i personaggi). In questa fase, la violenza, che fino a quel momento era stata espressa solo verbalmente, prende forma usufruendo dei corpi dei protagonisti, che liberano il loro alter ego nei confronti dei più deboli.
Dopo aver contribuito al raggiungimento del climax emotivo, ai protagonisti non resta che riparare i danni commessi, i nodi vengono al pettine ma il loro scioglimento diventa meno complesso delle previsioni. La riparazione non è che un atto forzato, un passaggio obbligatorio, una purificazione che si limita a ripulire i colpevoli solo esternamente. È qui che il termine Posh assume un’accezione negativa e, da lusso e aristocrazia, diventa sinonimo di snobismo e disuguaglianza.
L’idea della regista è quella di sviluppare una visione critica su eventi quotidiani e, per metterla in scena, edifica una realtà abitata per la maggior parte da personaggi negativi. Non cerca di piacere a nessuno e paradossalmente è questa caratteristica che intriga lo spettatore. La crudeltà, la realtà e la vera natura dell’uomo vengono vomitate sul grande schermo, senza filtri, trafiggendo lo spettatore che, a sua volta, rispedisce le sue emozioni alle immagini sullo schermo. L’esperienza di visione diventa talmente soggettiva che lo spettatore proverà fastidio, disturbo ma, a differenza dei protagonisti, non tenterà di emulare i comportamenti dei ragazzi. Il loro atteggiamento aggressivo e al di fuori degli schemi diventa l’unica forma di catarsi per il pubblico in sala.