La bella e giovane Song Hye-won fa ritorno al luogo natale, un piccolo paesino sperduto nelle campagne della Corea del Sud. La ragazza aveva salutato il posto dove era cresciuta in seguito al misterioso abbandono da parte della madre vedova che, quando la figlia era solo una ragazzina, sparì nel nulla da un giorno all’altro lasciando soltanto una criptica “lettera d’arrivederci”. La frenetica vita a Seoul e il fallimento nel doppio tentativo di studiare e lavorare, unito alla recente crisi con il fidanzato, hanno spinto Hye-won a cercare una rinnovata serenità nella casa dove aveva trascorso quell’infanzia spensierata, immersa nella natura e all’interno di una comunità familiare dove tutti conoscono tutti. La protagonista ritrova gli amici di sempre, il bel Lee Jae-ha – che si è dato all’attività di agricoltore – e la sodale Joo Eun-sook – ora commessa in un ufficio locale, e grazie anche al loro aiuto cerca di rimettere in piedi i pezzi della sua esistenza.
Alla base vi è l’omonimo manga di Daisuke Igarashi, già adattato per il grande schermo proprio in Giappone con un dittico di film, ognuno dei quali raccontante due distinte stagioni dell’anno. In quest’adattamento battente invece bandiera coreana si è optato per la sintesi e un intero anno viene raccontato dai titoli di testa a quelli di coda, sulla scia di quanto fatto dal connazionale Kim Ki-duk con il magnifico Primavera, estate, autunno, inverno… e ancora primavera (2003). Certamente parliamo di due opere molto diverse, giacché Little Forest non cova ambizioni autoriali o artistiche di sorta ma ricerca invece la semplicità delle piccole cose, un’atmosfera in grado di catturare con apprezzabile furbizia e avvolgerlo in un’aura di immediato e liberatorio sentimentalismo, mai stucchevole o retorico.
Un racconto che scivola addosso infondendo un senso di serenità raro nel cinema contemporaneo, spesso tendente a stupire il pubblico con rivelazioni ad effetto e scene madri: nel corso dei cento minuti di Little Forest accade poco o nulla, ma quel poco o nulla è necessario al percorso catartico della protagonista e dello spettatore con essa. La riscoperta delle piccole cose, l’atmosfera permeata da una dolce malinconia, l’esaltazione dei rapporti umani sono i cardini fondanti di una narrazione libera da costrizioni che si premura di mettere l’osservatore a proprio agio e trascinarlo in un contesto rurale dove lo stress e la frenesia sono soltanto lontani ricordi. Così come in altri classici a tema del calibro di Il pranzo di Babette (1987) e Chocolate (2000), il cibo gioca un ruolo importante nell’avvicendarsi delle quattro stagioni: l’attenzione culinaria riservata alla preparazione delle ricette che Hye-won cucina in molteplici occasioni mette l’acquolina in bocca e colpisce per la precisa e mai stonata integrazione col racconto, diventando ennesimo punto di forza della visione.
Il romanticismo potenzialmente suggerito è saggiamente lasciato in secondo piano perché Little Forest preferisce concentrarsi su di un altro legame, ossia quello dell’amicizia, e il rapporto che lega i tre personaggi principali si ammanta di sfumature intuitive e verosimili, prive di eccessi melodrammatici, tendenti come il resto del contesto ad un’irresistibile leggerezza che resta impressa anche dopo lo scorrere dei credit. La regista Yim Soon-rye, attiva fin dai primi anni ’90 e considerata una delle autrici più influenti della new wave del cinema coreano, cattura appieno il quieto fascino dell’ambientazione e sfrutta con intelligenza le peculiarità dell’affiatato e centrato cast, guidato dalla tenera bellezza di Kim Tae-ri, che aveva già conquistato tutti con la torbida e tormentata performance nel Mademoiselle (2016) di Park Chan-wook.
Voto Autore: [usr 3,5]