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La ragazza che sapeva troppo

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Molti sanno che Mario Bava è stato un maestro dell’horror cinematografico e che gli effetti speciali artigianali dei suoi film per molto tempo non hanno avuto rivali. Ma quanti sono al corrente del fatto che fra i generi cui ha dato il via con le sue pellicole c’è anche il giallo all’italiana, per di più con quasi dieci anni di anticipo rispetto alla fortuna del filone sul grande schermo? La ragazza che sapeva troppo (1963) doveva intitolarsi “Incubo” ma per il produttore era troppo ghiotta l’occasione di richiamare L’uomo che sapeva troppo (1956) di Alfred Hitchcock e sfruttare l’onda lunga di quel successo commerciale. Così la quarta regia di Bava (l’ultima realizzata in bianco e nero) risulterebbe per la storia del cinema l’anello di congiunzione fra il thriller inglese degli anni Cinquanta e quello nostrano dei Settanta, con una spruzzatina di gotico che derivava dalle precedenti esperienze con I vampiri (1957) di Riccardo Freda e poi ovviamente il proprio esordio La maschera del demonio (1960). Pero è evidente come la fotografia dei suoi primi lavori dovesse tanto ai noir americani e francesi, sicché in certi casi le genealogie appaiono molto restrittive.

L’inverosimiglianza della situazione di partenza, la casualità del coinvolgimento della protagonista, l’importanza delle scenografie, l’uso di luci e ombre e l’enfasi sui rumori fanno perciò di questo film un vero e proprio atto fondativo inconsapevole di quello che sarà il giallo all’italiana. Inoltre, le riprese notturne di Roma verranno riproposte in molti film di Dario Argento a partire da L’uccello dalle piume di cristallo (1970). Ma è soprattutto l’atmosfera minacciosa di La ragazza che sapeva troppo a costruire la sua fortuna e a far sì che oggi venga considerato un cult movie. Bava riesce con estrema disinvoltura a sviluppare una trama di 92 minuti senza che accada pressoché nulla di rilevante fino al finale, caricando tutta la prima parte di attese e misteri come aveva fatto con La maschera del demonio in ben altre circostanze narrative. A ciò si aggiunge l’intuizione di contornare la protagonista di figure ambigue e sospese, mai davvero presenti se non per convincere la giovane donna che ciò a cui ha assistito quella fatidica notte è stato solo frutto della sua immaginazione.

A motivare la risolutezza di Nora Davis c’è però la sua passione per i romanzi gialli e una naturale propensione all’indipendenza che è tipica di diversi personaggi femminili del cinema italiano dell’epoca. Infatti, gli anni del Boom economico sono anche quelli dell’affermazione sociale di una generazione pronta a lasciarsi alle spalle il patriarcato dopo aver finalmente visto le madri votare. Un momento delicatissimo della storia del nostro Paese che si rivela negli strati popolari dell’industria spettacolare forse più e meglio che nei più accreditati capolavori del cinema d’autore. Nora viaggia da sola e frequenta uomini. Quando sua madre la chiama al telefono, le dice quelle due cose che vuole sentire e accoglie con ironia le raccomandazioni. La ragazza che sapeva troppo di Bava è perciò anche un ritratto di donna degli anni Sessanta sullo sfondo di una vicenda apparentemente fantastica ma dai risvolti psicologicamente inequivocabili. In conclusione, non si può non citare la meravigliosa interpretazione sopra le righe di Valentina Cortese, diva del nostro teatro da poco scomparsa.

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