La pandemia e la forzata clausura all’interno delle mura domestiche, hanno fatto sì che tutti noi fossimo costretti a stare molte più ore con noi stessi, a pensare e riflettere sulla nostra esistenza. Così Netflix ha chiesto a diciassette personalità del mondo del cinema di raccontare, attraverso un cortometraggio, la loro esperienza durante il periodo di lockdown, dando vita a Homemade, probabilmente il più ambizioso coacervo di menti creative dal mondo della settima arte, unite nel creare una sorta di concept album cinematografico. Al centro di tutte le storie c’è, ovviamente, il virus, vero protagonista dell’intero progetto, analizzato sotto vari aspetti e attraverso vari toni. C’è l’ironia, l’angoscia, la disperazione, l’accidia, la noia, il gioco e molto altro ancora. Chiaramente, di fronte ad un progetto che racchiude insieme opere e autori così diversi tra loro per stile e spesso anche per professione (ci sono registi, direttori della fotografia, attrici e altri professionisti del mondo del cinema) qualsiasi tentativo di fare un discorso generalizzato sull’opera in sé non ha moto senso. Conviene invece mettere in risalto i titoli migliori, quelli più artisticamente interessanti (non moltissimi) e considerare invece cosa non ha funzionato in alcuni degli altri. In generale, l’unica cosa che si può dire è che Homemade, per come era stato concepito dai produttori, non soddisfa pienamente le aspettative, perché, fatto salvo per alcune eccezioni, finisce per intrattenere poco chi guarda, molto più spesso annoiato o confuso da cortometraggi troppo corti e poco incisivi nel messaggio. Non mancano però alcune perle.
Cominciamo dalle note dolenti. Nella raccolta ci sono alcuni titoli che, pur essendo diretti da registi di solito interessanti, non sono riusciti ad esprimere nessun messaggio e finiscono per lasciare lo spettatore senza parole, in senso ovviamente negativo. Bisogna fare una premessa: i cortometraggi di Homemade sono più dei micro-metraggi, avendo una durata che va dai 6 agli 11 minuti. In un lasso di tempo così breve è difficilissimo raccontare una storia in modo originale e ci sta che non tutte le componenti dell’opera non riescano minimamente a soddisfare il palato di un qualsiasi spettatore.
Sicuramente la più grande delusione di Homemade è Mayroun and the unicorn, il corto scritto e diretto da Nadine Labaki (Cafarnao) con protagonista la sua bambina Mayroun, alle prese con la chiusura forzata che la spinge ad inventarsi un gioco (che perde ben presto i connotati ludici per diventare quasi un incubo) per cui, insieme al suo unicorno peluche deve sconfiggere il virus. Il problema di questo e di molti altri corti è l’inconsistenza artistica che lo caratterizza. È un filmino amatoriale famigliare, non certamente un film che si propone di parlare ad una platea vasta e universale. A parità di tematica (la lotta contro il terrorismo psicologico e la monotonia domestica per una bambina) stravince il corto Espacios, firmato dalla messicana Natalia Beristain, dove la dolcissima piccola Jacinta cerca di occupare le ore della sua giornata solitaria nelle maniere più disparate. Entrambi i corti puntano sulla tenerezza e sul trauma che i bambini certamente hanno sentito maggiormente durante il lockdown, ma quello della regista libanese si tradisce cercando di intellettualizzare una storia che dovrebbe essere genuina, e non sforzata. Il fatto che Mayroun si metta a canticchiare Bella Ciao, alla fine del suo cortometraggio non rende giustizia né al film né alla leggendaria canzone, completamente fuori contesto.
Tra le delusioni più clamorose bisogna inserire anche il cortometraggio di Ladj Ly (I Miserabili). Come sempre il regista francese si propone di portare sullo schermo la realtà (spesso drammatica) della banlieu parigina, qui inquadrata attraverso il drone di un ragazzino, che lo pilota per tutto il quartiere. Il breve film si conclude con la frase “Se i tempi sono difficili, per chi lo sono?”. Questa domanda di chiusura, abbinata alle immagini di code infinite per entrare nei supermercati, e in generale di gente che, costretta in casa, fatica a sbarcare il lunario, fa sì che l’opera di Ladj Ly sia eccessivamente retorica. Il fatto che essere costretti in casa ma potendo fare ciò che si vuole (esercizio fisico, giocare col drone ecc.) come fa il protagonista sia meno duro che non sapere se ci sarà un futuro per sé e per le proprie famiglie (come gli inquadrati) è chiaro, ed è superfluo sottolinearlo. Questa scelta fa sì che le ottime riprese vengano oscurate da un eccessivo ricorso alla retorica, alle frasi fatte. Da una delle rivelazioni della scorsa stagione cinematografica era lecito aspettarsi molto di più.
Forse il cortometraggio più atteso (almeno negli USA) era quello di Kristen Stewart, intitolato Crickets. Di fatto esso è l’esordio dietro la macchina da presa da parte di una delle attrici più mainstream dell’intero panorama cinematografico. Le grandi aspettative non sono state supportate dai fatti. La storia (confusionaria al massimo) racconta di una giovane donna che durante il periodo di chiusura forzata, non riesce nemmeno a riposare, finendo per vivere in un perenne stato di dormiveglia. Ne esce fuori una serie di primi piani e raccordi violenti con espressioni della sempre maggiore follia della protagonista, insopportabili e senza un senso preciso.
Non mancano titoli mediocri, non del tutto deludenti ma nemmeno troppo convincenti. C’è il film della regista zambiana Rungano Nyoni che racconta di una coppia costretta a convivere pur essendo in procinto di rompere, solo attraverso le loro chat su WhatsApp; c’è il cupo pessimismo di David Mackenzie (Hell or high water) nel suo What is essential?, dove dà voce alle riflessioni di una ragazzina che compie sedici anni durante il lockdown e che si sente completamente impreparata ad affrontare la vita adulta; c’è la raccolta di istantanee (perché non si tratta di vero cinema) di Naomi Kawase nel suo Last Message, unite ad un monologo filosofico su quanto sia preziosa la vita (ma che non convince per niente). Insomma, la parola chiave per gran parte delle opere che formano Homemade, è pigrizia. Quasi tutte si limitano a concepire il virus come l’oggetto principale del racconto, non cercano strade alternative e non dicono nulla di più dei mille discorsi che abbiamo sentito quotidianamente per tutto il corso della pandemia. Da questo punto di vista occorre dare merito a Maggie Gyllenhall, anche lei al suo esordio alla regia con Penelope, puro film fantascientifico nel quale la pandemia ha lasciato lo spazio ad un futuro distopico, dove il virus ha colpito l’intero universo e dove un uomo non rinuncia a visitare ogni giorno la tomba della moglie, morta come gran parte della popolazione mondiale. Il film a dire il vero non è dei migliori e necessitava forse di una decina di minuti in più per poter davvero colpire nel segno sprigionando tutto il suo potenziale, ma per lo meno fa vedere qualcosa di diverso, il virus visto da una prospettiva nuova. Basta coi bollettini, è tempo di fare il nostro mestiere di cineasti: immaginare storie. Questo sembra dire la Gyllenhall, giocando un ruolo di acqua fresca per l’intero progetto.
Tuttavia in Homemade ci sono anche alcuni titoli estremamente interessanti. I veri colpi da maestro dell’opera sono almeno tre. In ordine crescente di efficacia si può cominciare con Algoritmo del premio Oscar cileno Sebastián Lelio. Esso è forse il film più interessante e originale dell’intera raccolta, configurandosi come un breve musical domestico con protagonista una giovane donna che, in spagnolo, si mette a ragionare sul Covid cantando. Già solo l’idea di creare in pochi minuti un musical su questo tema merita grande rispetto, e il fatto che il risultato finale sia pure divertente e piacevolissimo dà ulteriore lustro a un regista che negli ultimi anni ha sbagliato poco e niente. Al “secondo posto” non si può che posizionare Ride it out, il corto scritto, diretto e interpretato (anche se la voce narrante è di Cate Blanchett) da Ana Lily Amirpour (The Bad Batch). Protagonista è la stessa regista e sceneggiatrice che, con tanto di mascherina, fa un giro in bici per una Los Angeles abbandonata e apparentemente priva di vita. Il monologo che accompagna la passeggiata è una profonda riflessione su quanto sia fragile il nostro mondo, anche (e soprattutto) quello dorato di Hollywood; fa un certo effetto vedere il Chinese Theatre e il Dolby Theatre deserti. La riflessione finale sulla formica che non si rende conto di essere una creatura infinitamente piccola e che proverebbe terrore se se ne rendesse conto, diventa monito a vivere l’emergenza in modo il più possibile sereno. Sta a noi decidere se farci prendere dal terrore oppure vivere come il piccolo insetto la nostra quotidianità cercando di non farci pesare troppo la giornata addosso. Un messaggio davvero intelligente, che riesce ad evitare qualsiasi implicazione retorica. Ma il capolavoro assoluto di Homemade è certamente Last Call, il cortometraggio di Pablo Larrain. Il film è la videochat su Skype di un anziano ricoverato in un ospizio di Santiago del Cile che riesce a contattare una sua vecchia fiamma dichiarando quanto il suo amore per lei sia ancora ardente. Con un colpo di scena impossibile da anticipare, pena la rovina della visione da parte dello spettatore, il regista di Jackie riesce a confezionare un’opera sagace ed intelligente, che colpisce e fa ridere a crepapelle lo spettatore.
Ci sono poi i prodotti ibridi, quelli che contengono elementi piuttosto interessanti ma non adeguatamente sviluppati al loro interno. Su tutti il primo è senza dubbio Voyage au bout de la nuit del “nostro” Paolo Sorrentino, che si immagina l’incontro tra Papa Francesco e la Regina Elisabetta facendo recitare due statuine del presepe partenopeo, dissacrando, come sempre, l’intera dogmatica e importanza che le due figure incarnano. Oppure Unexpected Gift di Gurinder Chadha (Sognando Beckham) dove la quarantena assume i connotati di opportunità per far conoscere meglio ai suoi due figli la sua cultura e la sua famiglia, con il solito, efficientissimo, tono ironico della regista indo-britannica. A The Lucky ones di Rachel Morrison (la direttrice della fotografia di Black Panther) il premio di miglior fotografia, essendo il suo monologo sul figlioletto un mirabile lavoro di fotogenia. In ultimo vanno almeno citati altri due film piuttosto interessanti come Annex, angosciante pseudo-horror di Antonio Campos (The sinner), dove il virus assume le sembianze di un misterioso naufrago accolto da una famiglia, e la follia un po’ kitsch di Sebastian Schipper in Casino, dove lo sceneggiatore tedesco si moltiplica in numerosi doppelganger.
Da un’idea interessante emerge una raccolta certamente innovativa ma tutto sommato migliorabile.