Su Duse (2025), film diretto da Pietro Marcello e presentato in concorso all’82esima edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia – il cui programma, terminato ufficialmente pochi giorni fa, trovate qui – c’è tanto da parlare, tanto in positivo quanto nei suoi aspetti più problematici. Una cosa, però, appare chiara: il pubblico della Biennale difficilmente potrà considerarlo un film adatto a una disamina davvero lucida e lineare.
Il motivo è facile da intravedere e si traduce, seppur nel corso della recensione ci sarà tempo e modo per esplicitare il tutto al meglio, nella mole ingente di informazioni narrative e visive approdate sullo schermo, per una durata di circa 122 minuti che non concede solamente più spunti di riflessione, ma anche più anime al suo interno, trovandosi la pellicola in un costante bilico tra l’essere stratificata e il soffrire di bipolarismo nudo e crudo.

Duse: Trama
All’inizio degli anni Venti, Eleonora Duse sceglie di tornare in scena dopo un lungo silenzio durato quasi dieci anni. Le difficoltà economiche e il desiderio di rimettere alla prova sé stessa la conducono a formare una compagnia, ma l’Italia che la circonda non è più quella che aveva lasciato tempo prima: il Paese porta ancora addosso le cicatrici della guerra e i primi segni del fascismo avanzano nelle piazze. In questo contesto instabile, la Duse tenta di rinnovarsi, accogliendo l’azzardo di un giovane autore inesperto, Giacomino. Il progetto, però, si rivela tanto fragile quanto sconclusionato e il fallimento dello spettacolo mette in discussione la sua figura di diva, costringendola a interrogarsi sul proprio ruolo e sul futuro.
Accanto alla dimensione pubblica si intreccia quella privata: il rapporto difficile con la figlia Enrichetta, che soffre l’ombra ingombrante di una madre assorbita dal palcoscenico, e la relazione mai del tutto chiusa con Gabriele D’Annunzio. Sullo sfondo, un’Italia che cambia, un mondo artistico che fatica a riconoscerla e la necessità di confrontarsi con il tempo che passa.
Duse: recensione
Duse è un film che merita due recensioni distinte, quasi fosse diviso in due anime contrapposte. A fare da costante, e a salvare l’opera nei suoi momenti più incerti, è la presenza magnetica di Valeria Bruni Tedeschi, qui protagonista assoluta di una prova a dir poco memorabile: la sua Eleonora Duse è un corpo e una voce che si confondono con la figura storica, incarnandone la fragilità e l’intransigenza, le ombre intime e il peso del mito. La sua grandezza emerge anche per contrasto, perché intorno a lei tutto appare più debole, più sfocato. Pietro Marcello prova a recuperare la lucidità e la potenza di Martin Eden – film del 2019 con Luca Marinelli in cui il contesto storico non era solo sfondo, ma sostanza narrativa e drammaturgica – senza però riuscire a replicarne l’efficacia.

In Duse la cornice del primo dopoguerra e dei fermenti sociali viene drasticamente ridotta difatti a pura scenografia, assumendo la cornice di un fondale destinato a non diventare mai racconto, ma limitandosi invece a muovere figure e situazioni senza reale incidenza sul tessuto narrativo. In un biopic così stratificato e ambizioso, questo ridimensionamento del contesto tanto appare come una scelta rischiosa, tanto non sembra frutto di una decisione artistica meditata, bensì il risultato di una velata incapacità di affondare lo sguardo, come se il cineasta classe 1976 si fosse immerso nel dare vita alla sua protagonista sottovalutando il contorno a ella circostante.
Duse: un’opera confusa
In tal senso, la prima parte del film si trova a soffrire e non poco il peso della propria sceneggiatura: Marcello adotta una direzione attoriale che penalizza i personaggi minori, incastrandoli in interpretazioni poco incisive, oltre che talvolta persino fallaci, che finiscono per intaccare la tenuta complessiva con la loro tendenza gratuita e non sempre accessibile alla teatralità d’intenti. È un avvio fragile, che trasmette la sensazione di un’opera in cerca d’appigli, come chi annaspa in mare aperto senza trovare un punto d’appoggio. La Duse di Bruni Tedeschi resiste, ma non basta a reggere un insieme che appare incerto e disorientato. Solo dopo quasi un’ora il film sembra trovare una voce propria, lasciandosi alle spalle l’andamento titubante e conquistando, finalmente, un respiro più personale.

Una protagonista di livello
Nella seconda metà del film le urla e le interpretazioni eccessive dei personaggi minori cedono finalmente il passo a Eleonora Duse, che diventa il vero centro della scena. Qui Pietro Marcello sembra ritrovare la propria impronta autoriale e a comprendere cosa funzioni davvero e cosa invece zavorri all’interno dell’opera: i dialoghi si fanno più incisivi, la narrazione assume finalmente una direzione, e il film comincia a respirare con maggiore lucidità. La macchina da presa, dal canto suo, si avvicina con più decisione al volto di Valeria Bruni Tedeschi, sfruttando i primi piani e lasciando emergere la complessità di un personaggio capace di risultare a tratti fastidioso, persino respingente, ma proprio per questo impossibile da ignorare.
È in questa ambiguità, nella capacità di far oscillare continuamente lo spettatore tra attrazione e disagio, che si riconosce la grandezza della sua interpretazione, in un limpido omaggio al buon metodo Stanislavskij. L’attrice si concede in una gamma di sfumature che non appiattiscono mai la “Divina”, ma la rilanciano continuamente come figura contraddittoria, fragile e monumentale al tempo stesso.
Una seconda parte più a fuoco
Nella seconda parte, i personaggi minori trovano finalmente una misura diversa: non sono più così numerosi come nella prima ora, dove sembravano moltiplicarsi senza logica, ma diventano più calibrati e funzionali alla narrazione. Anche la scrittura acquista lucidità, riuscendo a intrecciare le figure secondarie in maniera più armoniosa con la trama principale. Il risultato è una sezione centrale del film sorprendentemente compatta, capace di restituire equilibrio e intensità, e che forse rappresenta il punto più alto dell’intera opera. Tuttavia, il finale non riesce a mantenere lo stesso smalto: la durata comincia a pesare, le due ore si fanno sentire e affiora una certa stanchezza, aggravata dalla presenza di scene che avrebbero potuto essere asciugate senza danno. Così la pellicola, che già non si offre come prodotto realmente accessibile nonostante quanto poteva suggerire il trailer, rischia di risultare più ingombrante di quanto fosse nelle intenzioni del regista.

Considerazioni finali
Il risultato, nel complesso, non assume di certo le fattezze di un brutto film: l’estetica autoriale di Pietro Marcello conferisce spessore e dignità al racconto, trovando una buona sintonia con la scrittura del personaggio interpretato da Valeria Bruni Tedeschi, la cui prova, ripetizioni permettendo, resta il fulcro dell’opera, ciò che la sostiene nei momenti più fragili e le impedisce di crollare del tutto. Duse non è quindi considerabile un fallimento, ma un film irrisolto, a tratti bipolare, in cui elementi riusciti convivono con altrettanti punti deboli e si traducono in un prodotto destinato a sfiorare appena la sufficienza senza mai riuscire a spingersi veramente oltre.
Non sorprende allora che la complessità di questa seconda parte abbia generato una ricezione altrettanto sfaccettata. Se sui social la polemica si è concentrata soprattutto sulla prima metà, bollata in maniera anche fin troppo punitiva come ingenua e talvolta pretenziosa, l’accoglienza in sala durante la conferenza stampa ha raccontato un’altra storia: sin dall’ingresso degli attori, e poi ancor più durante le risposte alle domande dei giornalisti, la sala si è scaldata in un applauso fragoroso e prolungato, insolito per un contesto in cui di solito si tende a trattenersi e ad aprire non più di uno spiraglio al proprio io. È un segno di quanto Duse divida e al tempo stesso colpisca, di come riesca a far parlare di sé tra entusiasmo e irritazione, proprio come il personaggio che porta in scena.

