Doppia pelle è una commedia dannata e surreale diretta da Quentin Dupieux, noto anche come Mr. Oizo. Interpretato dal premio Oscar Jean Dujardin e da Adele Haenel, il film è ora disponibile in streaming su Prime Video
C’è chi nasconde la fragilità dietro a spessi occhialoni scuri, chi mistifica la propria inconsistenza dentro a camicie ben abbottonate e chi inganna persino se stesso caricandosi addosso la pelle di qualcun alto. Georges è così perdutamente ammaliato dal morbido animalesco involucro di una giacca di pelle di daino con frange da cow boy da dimenticare ogni cosa sia accaduta prima del loro incontro. Ora nulla conta più del suo blouson color cognac. “Doppia pelle” è il racconto di uno stupido sogno a cui si demanda tutto l’insostenibile peso dell’attribuzione di senso di una vita intera.
Quel fodero carezzevole diviene l’unico imballaggio meritevole per quell’uomo appannato dalla mediocrità. L’impeto di passione tra Georges e la sua giacca raggiungerà vette di morbosità impensate. Lui desidera essere l’unico uomo con quel prodigioso “look da strage” e lei, la giacca, l’unica giubba al mondo. Al fine di vedere l’insensato obiettivo raggiunto non saranno da escludere soluzioni radicali.
Nella sua irragionevole lucidità “Doppia pelle” di Quentin Dupieux pervade tutti i suoi 76 minuti di durata con una controversa inquietudine e un senso dell’umorismo perverso. Un film che invece di sbucciare la corteccia identitaria per mostrare cosa possa nascondersi dietro la maschera, come farebbe molto cinema d’autore, sceglie, da intelligente film demenziale, di caricare il perduto uomo contemporaneo di un drappo bestiale al quale si desidera dannatamente dare un senso. Il risultato è sorprendente.
“Doppia pelle” è un film di Quentin Dupiex, e questo già di per sé può dirci molto sul carattere dell’opera
Scritto, diretto e montato da Quentin Dupieux, “Doppia pelle” è sadico, ironico, vintage, distorto e intriso di un’illogicità dilagante. Ma siamo pronti a scommettere che cadrete nella tentazione di attribuire a quest’opera dell’assurdo un ragionevole significato.
Un po’ film dell’orrore, un po’ commedia, persino un tantino intimo dramma esistenzialista, “Doppia pelle” da poco chiamato ad arricchire il catalogo Prime Video, potrebbe essere interpretato anche come un raffinato esercizio metacinematografico.
Dupieux, conosciuto con lo pseudonimo di Mr. Oizo, è la mente che si annidava dietro la creazione della campagna pubblicitaria Levi’s animata dal giallo pupazzo Flat Eric e da un jingle martellante che non avrebbe abbandonato il nostro stipato abitacolo cerebrale per un bel po’. Il Dupieux DJ elettronico ha poi felicemente convissuto con il Dupieux regista visionario. Dietro la macchina da presa il francese ha sempre dato prova di un certo affetto per il corto circuito che lascia scoperti i cavi della creazione filmica.
Tutta la sua voglia di palesare il trucco della finzione era già ben delineata nel suo primo mediometraggio “Non Film”. Il regista poi nel 2010 realizza l’eccentrico “Rubber” (il cui protagonista è uno pneumatico animato e assassino che uccide mediante i suoi poteri psichici) e torna sul tema dell’inganno della rappresentazione con “Réalité”, la storia di un cameraman molto determinato a passare alla regia.
Ma è probabilmente proprio in “Doppia pelle” che questa poetica della riorganizzazione filmica dell’assurdo si nobilita in modo inaspettato.
Lui non indossa più la sua pelle. Ora è l’uomo con la giacca, e casualmente è armato anche di una telecamera
Georges (Jean Dujardin, attore francese premio Oscar per “The Artist” e interprete ne “L’ufficiale e la spia” di Roman Polański ) guida la sua automobile in uno sperduto paesaggio di montagna. Si inerpica tra le curve della vallata e rimira i riflessi della sua figura. Guarda la sua immagine impressa sui finestrini, intrappolata nello specchietto retrovisore, come se volesse assicurarsi che quell’uomo al di là del vetro esista davvero. Si ferma ad una stazione di servizio e getta la sua vecchia giacca nel gabinetto, forzandone l’entrata con i suoi stivaloni. Si sbarazza di un passato di cui non sapremo nulla. Georges è pronto per un’altra vita, per una pelle di ricambio. Acquisterà una giacca di daino sborsando una cifra da capogiro ad un anziano collezionista.
Con quella indosso Georges si sente irresistibile: è finalmente a fuoco, finalmente riconoscibile. Il vecchio collezionista è così soddisfatto di essersi liberato di quella vecchia giubba con le frange da regalare anche una handycam digitale allo strambo avventuriero spendaccione. Georges ora è libero di perdersi in quel paesaggio non luogo, indossando quella nuova identità tutta da costruire. La moglie, probabilmente abbandonata in un passato che ha preceduto insipido l’arrivo della giacca di daino, gli urla al telefono: “Non voglio sapere dove sei. Non sei da nessuna parte. Non esisti più”. Georges non se lo lascerà ripetere di nuovo.
Anche la giacca di pelle parrebbe essere intenzionata ad uscire dall’anonimato
Prima il blouson era stipato in un baule insieme a tanti altri giacconi. Ora gode di un proprietario così folle da udirne gli inconfessati pensieri. La giacca con le frange vuole ad ogni costo essere l’unica giacca in circolazione. Georges proverà a realizzare questo assurdo piano di supremazia dei capospalla fingendo di girare un film. Convinto che la sua giacca gli doni un aspetto inimitabile e spregiudicato, costruirà un’identità parella che lo vede regista d’esperienza, sfortunatamente abbandonato dai produttori, in cerca di fondi per il suo nuovo progetto.
Chiederà l’aiuto della giovane barista Denise (Adèle Haenel – “The Fighters – Addestramento di vita”, “Ritratto della giovane in fiamme“). Lei è appassionata di montaggio. Ha persino tentato di riordinare cronologicamente le scene di “Pulp Fiction”. Il risultato ovviamente è stato una vera schifezza. Non è possibile mettere ordine a ciò che ha fascino proprio in quanto sottosopra. L’addetta al montaggio riuscirà a dare un senso alla nuova identità di daino vestita di Georges? E a mettere ordine alla violenza scaturita dal piano diabolico della sua giacca?
Jean Dujardin interpreta magistralmente un uomo in fuga da se stesso
L’ossessione affatto banale di Georges si trasforma al progredire dell’assurdo narrativo in un progressivo distacco dalla realtà al fine di edificare, mattone per mattone, sangue su sangue, una finzione capace di sostituirsi al reale, finendo per essere materiale maggiormente fascinoso e credibile. Una videocamera dismessa, un film improvvisato diretto da un regista inconsapevole, senza troupe, animato da attori con i minuti contati, e montato da un’addetta al montaggio che non si pone alcuna domanda sulla natura di ciò che accade dinanzi ai suoi occhi, in nome di una fantasticata espressione artistica. Un film che diviene realtà, mentre il mondo tangibile è paradossale.
Nel corso del film lo spettatore assiste alla progressiva trasfigurazione del protagonista in animale selvatico. Ricoperto di daino dalla testa ai piedi, Georges diventa una bestia – ruba un cappello, acquista un paio di stivali, aggiunge persino un paio di pantaloni e di guanti – e affila le armi a disposizioni per andare a caccia di qualsiasi esemplare (di giacca) possa impensierire il suo presunto dominio.
A rendere interessante lo sprofondare nell’abisso del nonsense è il fatto che “Doppia pelle” chieda allo spettatore di interpretare il linguaggio metacinematografico. Mediante lo sguardo della coprotagonista femminile Denise, abitata da noia, brama di riscatto e morbosa curiosità (caratteristiche molto insite anche nello spettatore contemporaneo), diviene lecito seguire le istruzioni di Georges demandando a lui le massime colpe della violenza perpetrata, sfamare il desiderio di indiscrezioni scabrose e infischiarsene di ciò che è giusto o sbagliato, vero o costruito ad arte.
“Doppia pelle” è nel volto silenzioso del protagonista, nel dialogo insistente tra campo e fuoricampo, nei finestrini che rimandano ad un’immagine perduta di se stessi e nelle frange svolazzanti e seducenti di una nuova epidermide che ammiccante tenta di ingabbiare un nuovo inquilino.
La giacca di pelle di daino è lo scudo emotivo di un cavaliere errante che ha perduto battaglie, senso e identità
Così se Travis Bickle in “Taxi Driver” smarrito tra le vie di New York scongiurava l’arrivo di un diluvio che potesse ripulire la metropoli dall’immondizia umana che la notte la prendeva in ostaggio, in “Doppia pelle” Georges diviene un eroe mascherato che intende ripulire il mondo dalle giacche insulse e inappropriate, consegnando lo scettro del potere alla sola e inimitabile giacca in pelle di daino made in Italy. La sua ovviamente è una speranza priva dell’aspirazione di riscatto e giustizia che animava il protagonista del film di Scorsese, è solo un piano egoistico e folle.
Il film di Dupieux porta entro i confini di uno schermo l’accidentato tentativo di riprogrammazione identitaria di un uomo che, liberandosi di vesti assuefatte, abbraccia un’inedita soggettività fondata sul fascino della carne e glorificata da un potere narcisistico esercitato con brutale violenza. Il protagonista non si limita a identificarsi nel suo involucro, ma finisce per spogliarsi letteralmente di ogni suo elemento precedentemente costitutivo, fino ad essere esso stesso un rivestimento che qualcun altro potrebbe decidere di abitare.
La fotografia di “Doppia Pelle” abbonda, soprattutto negli interni, di varie tonalità di giallo, nocciola e marrone chiaro. La protagonista indiscussa non a caso è la giacca di daino color cognac e ogni elemento nella scenografia riflette come uno specchio la sua supremazia cromatica. La composizione scenica è incorniciata frequentemente da dutch angles, che distorcono la realtà e lasciano immaginare un significato da ricercare altrove, tra le righe.
“Doppia pelle” crede fermamente nel potere del paradosso
La regia di Quentin Dupieux serve inflessibile il carattere surreale del film: senza cadere nella tentazione di suggerire posticce spiegazioni. Non si concedono soluzioni. Si tratta di un cinema solo apparentemente casuale: quella di Quentin Dupiex, al contrario, è una creazione filmica attenta, derivativa, un’analisi accorta di ciò che va mostrato sullo schermo e di ciò che, pur dissimulato, saprà farsi riconoscere.