Piove! Dice forte il barista quando due divise entrano nel locale per un caffè. A Tor Bella Monaca, e probabilmente in diverse periferie della borgata romana, si dice così, per avvertire in codice che la polizia è in giro e bisogna stare attenti, occhi aperti, orecchie tese, lingua ferma. Ma secondo Marco Bocci, attore qui alla sua prima regia con un lungometraggio tratto dall’omonimo libro da lui firmato, in quegli angoli di capitale che conosce fin da bambino, cresciuti nel veleno e nell’indifferenza insieme a lui, non è che piova tanto spesso, anzi da quelle parti, si può dire, mai; e se piove, piove tardi, piove sbagliato.
Così dimostra la sua storia, un famiglia come tante, Guglielmo (Giorgio Colangeli) padre anziano in lotta con una pensione troppo bassa, Maria (Lorenza Guerrieri) madre casalinga, non del tutto autosufficiente negli spostamenti, due figli al seguito, Romolo (Andrea Sartoretti), ex galeotto, quattro anni di prigione alle spalle una moglie, una figlia, un lavoro in fabbrica, l’inquietudine del futuro e del passato mescolate nell’asfittico presente e Mauro (Libero de Rienzo), nemmeno quarantenne, in attesa di essere chiamato dal Comune dopo un fantomatico concorso, che si arrangia con lavori saltuari da paghe ridicole e sogna ancora Samanta (Antonia Liskova), la donna che lo ha fatto innamorare.
Tutti sotto lo stesso tetto, negli incerti, anonimi, alienanti casermoni grigi di Tor Bella Monaca, tra poveri diavoli, malavita da marciapiede e guardie in uniforme o in borghese che non dimenticano gli errori e girano a vuoto intorno a queste carcasse umane. In affanno con gli affitti, sotto scacco con le bollette, raggirati dall’affittuario insolvente e ladro (Massimiliano Rossi) cui il padre aveva affittato l’unico locale di sua proprietà, morta anche l’anziana nonna, che contribuiva con la sua pensione all’instabile bilancio familiare, l’unica soluzione per evitare i debiti e la rovina, sembra essere una rapina. Obiettivo, i cinesi, il presunto riciclaggio da essi operato, la loro presenza scomoda, non integrata, i misteri dietro l’apparente tranquillità economica, l’invidia, il razzismo, la disperazione. A metterla in atto è il fratello meno credibile come malvivente, il più pacato, il meno adatto, il più fragile; a scontarla, no.
In un montaggio elettrico ed audace, si sbizzarrisce questo esordio registico fagocitante, che spazia in molti tentativi, con un’ansia dimostrativa e in parte sperimentale che non sempre hanno sufficiente sviluppo o giustificazione, dunque rimangono fini a se stessi, senza fare centro. Soggettive sfocate, macchina da presa che segue i movimenti di una nuca, cambi di fuoco improvvisi, ellissi narrative in dissolvenza, entrate in inquadrature brusche ed inaspettate, droni che più di una volta sorvolano sul teatro di questo dramma sociale, regalando vedute aeree come presagio di sventura sopra un’oasi di purgatorio abbandonato da Dio, in cui pagano i più deboli e ad un certo malo destino di perdizione pare non si possa sfuggire. Sembra che l’aria, le persone, i gesti che si svolgono in questi quartieri restino intatti solo per i bambini e per i perdenti, perché una volta adulti e responsabili, il marcio contagia tutti, senza lasciare scampo: tanto o ti salvi così, o non ti salvi.
La giustizia non li conosce questi territori; lo Stato non gli crede; la polizia non sa che farsene; di legge sembra essercene una sola: la predestinazione alla caduta. Come in una qualsiasi tragedia di Eschilo, con colpe familiari incrociate, deus ex machina a-funzionali, umanità pedina di una mitologia che si ripete funesta; aggiungiamo scenari alla Gomorra romana, accenti ex-Suburra, scevri da divismo, sigarette continue, sguardi in attesa, silenzi decisori, quotidianità in bilico sulla catastrofe ed abbiamo il set: qui un sorriso, una gentilezza, un amore che non si dimentica, sembrano oggetti fuoriposto, fermano il tempo e commuovono. Così scuote il sentimento puro di Samanta una volta svelato dietro la corazza da dura; o l’insistita ingenuità, che diventa colpa, con cui Mauro affronta i problemi; o ancora l’amore fraterno tra due antipodi, uniti e diversi, non descritto, ma agito, che lega insieme più nella difficoltà che nella normalità: vorremmo crederci, ma non possiamo.
Profili duri inteneriti da un’intima speranza, che è stata probabilmente quella di Bocci bambino, uscito fuori dal nido feroce in cui è nato: si può credere che le cose vadano meglio, o persino convincersi di essere diversi da tutti quelli che ci circondano. Bisogna solo vedere quanto resiste il pensiero, meglio dire in questa storia, l’illusione.
Narrazione in medias res, ritmo sostenuto, spesso in fibrillazione, tra naturalismo e videoclip, esacerbato da effetti sonori disturbanti e musiche ossessive, lanciate a tutto volume o improvvisamente tacitate su sguardi, azioni, camminate, conchiuse in geometrie color cemento, anaffettive, solitarie e senza anima, frutto di architetture orfane, volutamente spaesanti, che ammucchiano, direzionano, segmentano, dividono, senza preoccuparsi del minimo raccordo con il resto del mondo. Così vive Tor Bella Monaca, storicamente periferia pericolosa, piazza di spaccio e di mala, ineducata all’ascolto, giungla senza luce di sopravvivenze, corridoio di pene, più o meno immaginabili, di conti con la giustizia, aperti, da aprire e comunque mai veramente chiusi.
Nel cast spiccano Colangeli e la Guerrieri, come anziana coppia che spazia dalla rabbia alla tristezza con profondità e verosimiglianza spettacolari, mentre Sartoretti convince nel suo ruolo sacrificale, nel nervosismo fisico e verbale con cui si esprime, nel bisogno di arginare gli ostacoli, nella sua ansia da redenzione. Splendida sorpresa ritrovata la Liskova, straniante in un accento non del tutto romano, bella nella disperata solitudine e Di Rienzo dagli occhi troppo puri per essere contaminati dall’ambiente, che respira fuori sincrono, ignaro della disgrazia incombente e noi con lui.
Oltre la sorte non benigna e le parole di protesta interdette rimaste a mezz’aria, nonostante la natura grezza del racconto, gli esseri umani di Bocci non smarriscono un atteggiamento positivo, che sembra trascinarli prepotentemente fuori dai clichè narrativi ed ambientali che li vorrebbero sepolti nel culto del crimine: come se la formula magica per sopravvivere fosse restare un passo dietro la tragedia, uno avanti alla soluzione.