Cupo, drammatico, dilagante, con svolte narrative compresse, sorprendenti ed improvvise racchiuse soprattutto dalla fine del secondo atto in poi: così Miguel Angel Vivas dirige uno script, realizzato insieme all’italiano Alberto Marini, in cui stigmatizza con un’epica sotterranea, la figura paterna e cosa essa è disposta a fare per il proprio figlio (l’hijo paradigmatico del titolo originale).
Al centro del motore tragico c’è l’equilibrato Jamie (Jose Coronado), chirurgo affermato, padre e marito calmo e posato, non avaro nel cercare la confidenza e l’autenticità nel rapporto con i propri figli, in particolare con il maggiore Marcos (Pol Monen). Ma una sera, tra i pazienti gravi finiti sotto i ferri in sala operatoria e, successivamente, in rianimazione dopo un violento pestaggio, di cui nessuno sembra sapere nulla, finisce proprio Marcos; per il padre inizia una solitaria caccia notturna e diurna ai responsabili della terribile aggressione.
Strappato alla famiglia in modo brutale e sofferto, come un lutto che pesa prima ancora di compiersi definitivamente, quel corpo inerte, sfigurato e disteso alimenta la rabbia e la vendetta del genitore, che nonostante rintracci abbastanza illegalmente gli autori del reato ed entri in possesso del video stesso girato dagli assalitori durante la rissa, sembra non trovare debito ascolto negli agenti di polizia competenti. Perciò, facendo appello a tutto il coraggio di cui dispone e sbandando pericolosamente nei territori insidiosi dell’ossessione, Jamie, per suturare la propria furiosa ferita, decide di farsi giustizia da solo, senza sapere che quella che gli si palesa come una dolorosissima realtà ne nasconde un’altra, ben differente, altrettanto crudele e sconvolgente.
E’ impossibile restare immobili senza far nulla di fronte alla sofferenza di un figlio, è innaturale ; soprattutto se è la vita ad essere in ballo, tutto sembra concesso, forse anche superare determinati limiti. Non è più giustizia calcolata, è vendetta. Ma non è questa di Vivas una farsa amletica, poiché la sua spina dorsale è altrove, ben camuffata: c’è una è una lunga, lenta, inesorabile ragnatela che isola progressivamente la responsabilità di due uomini, uno più adulto, uno più giovane, evidenziandone criticamente gli irrimediabili errori, tacitati agli occhi della società circostante, perché, dopotutto, il mondo è patriarcale.
Le donne in questo film sono le silenti, le nascoste, le vittime, le sottomesse, tutte indirettamente testimoni di un modo di fare che non le considera: è Marcos il più ascoltato in famiglia, la madre Carmen (Ana Wagener) lo accompagna a lezione, il padre ci messaggia come se fosse un amico, ci fa jogging insieme, si dicono di volersi bene spesso e sinceramente; mentre di Sara (Asia Ortega), la sorella minore, Jamie ne apprende notizie tramite la moglie ed è evidente la distanza che c’è tra i due nei loro radi, determinanti, dialoghi; di Marcos l’uomo sa tutto, non sopporta i non detti e scoprire scomodi, allarmanti, segreti dopo l’incidente lo prostra fortemente; di Sara il padre sembra non conoscere le aspirazioni reali, gli interessi sentimentali, le persone che frequenta; alla moglie Jamie non rivela nulla dei pensieri febbrili o disperati che lo attraversano, non condivide il dolore, non piange con lei nè con Sara per ciò che è accaduto, non fornisce spiegazioni nemmeno dopo essere stato fermato dalla polizia o essere stato ferito dal padre di uno dei picchiatori da lui bruscamente intercettato.
E ‘ una famiglia apparentemente bilanciata e normalissima, permeata da sottile distanza reciproca, da ingombranti silenzi, dovuti ai turni di lavoro, alle assenze di ciascuno, a domande mai poste e a risposte date per buone. Al di là di ciò che accade e non accade tra consanguinei, ci sono indizi e prove provate di una riflessione sul maschilismo come cattivo maestro, disseminate in tutto il film, piccoli accenni visibili e ricollegabili a finale concluso: da Maria Josè la madre probabilmente vittima di violenza del bambino che Jamie opera con successo salvandolo ad inizio film, alle notizie del giornale radio che l’uomo ascolta distrattamente in ogni tragitto casa-ospedale in cui si riporta il caso di uno stupro di gruppo messo in dubbio dalle autorità, fino ad arrivare alla storia personale di Andrea (Ester Exposito), l’ex-ragazza di Marcos, attorno a cui ruota il colpo di scena dell’ultimo atto, con cui si azzerano quasi del tutto le carte in tavola e si chiede direttamente il conto di una responsabilità tutt’altro che immaginabile e digeribile.
In questo panorama, di maschi che parlano con maschi, o uomini con uomini, o padri con padri o padri con figli, in cui l’autorità maschile è accennata, mai evidentemente trattata o descritta, perché il focus rimane trovare gli assalitori del giovane in coma, la decisione definitiva di Jamie su cui chiude il film, è la pietra tombale, il silenzio sopra un dissenso, l’annientamento del diritto di opporsi, il no alla vergogna e la più disperata difesa opposta da un genitore, pur di non veder crollare il ricordo personale di un figlio inanime, ormai più perso che salvo.
Grande carisma per Jose Coronado, candidato al Premio Goya 2019 come miglior attore protagonista, che interpreta Jamie con posa ed eleganza: il suo profilo austero ed i suoi colori ricordano un Gian Maria Volontè d’annata, ha presenza scenica dominante ed un’inquietudine calibrata e profonda, tale da rendere imprevedibili in più di un punto i suoi scatti, il fine ultimo del suo vagare e le reazioni ai propri stessi atti.
Ritmo fortemente squilibrato, impegnato a dilungare ampiamente i tempi nella prima parte, costruita per rendere innocuo e il più possibile comprensibile l’agire paterno tra lentezze, indulgenze visive, stasi ed attese anche eccessive, che tolgono mordente alla curiosità, per poi cambiare drasticamente registro nella seconda, dove si svuotano le aspettative, si chiarisce la poca profondità della premessa, la lunghezza della sua introduzione, e cambia colore tutto il film: da tragedia greca implode in un thriller drammatico, asfittico, duro e che induce ad una riflessione sui limiti oscuri e le fragilità disumane insite in ogni paternità. Fotografia sontuosa, che assorbe i soggetti in colori tossici, o in eleganti contrasti fuoriusciti da albe profetiche e da notturni al neon, paesaggi interiori più che esteriori.
Evocativo ed esplicito nel finale e nel prefinale, sfida i tempi di attenzione dello spettatore, ma conquista prestigio per l’alzata di testa finale: non sempre le colpe dei padri ricadono su quelle dei figli, questa è una storia in cui sono quelle dei figli a ricadere sui padri. Ed anche qui è il male del patriarcato.