E’ possibile raccontare le contraddizioni del diritto internazionale, gli strascichi del colonialismo, le cicatrici di guerre civili ed occupazioni straniere, i paradossi della costruzione di frontiere all’interno della stessa città, solo rincorrendo un cane? Sì è possibile: lo fa Marios Piperides nel sua opera prima dal titolo Torna a casa, Jimi!, favola surreale dal sorriso malinconico e non troppo scanzonato, con cui ha vinto il Best International Narrative Feature al Tribeca Film Festival del 2018.
Il suo protagonista è il piccolo Jimi, bastardino in libera trasferta per Nicosia capitale di Cipro, incurante del fatto che la città e l’isola intera sono divise da un perimetro, la cosiddetta linea verde, che ne segna una frontiera non facilmente valicabile: da una parte la repubblica greco – cipriota formatasi a seguito di un colpo di stato negli anni settanta, dall’altra quella turco – cipriota, nata come occupazione armata di territori in reazione al golpe precedente.
Due dogane, due valichi ed in mezzo una terra nullius simile a quella del muro di Berlino fatta di case diroccate, macerie e resti vari di vite precedenti.
Come se non bastasse sullo stesso territorio insistono forze di pace targate ONU, il non plus ultra dell’ambiguo istituzionale, che si traduce in truppe corazzate per soli scopi pacifici, si dice, con indefinibili e mutevoli missioni, diverse a seconda di dove si trovino ad operare, qui disegnate come moderni burocrati in mimetica e targhetta di appartenenza al club dei finti-giusti, incapaci di essere buoni buoni o cattivi cattivi, ininfluenti su una situazione paradossalmente drammatica, inabili persino ad aiutare un uomo a ritrovare il proprio cane smarrito.
D’altronde Torna a casa, Jimi! possiede un sottotitolo cristallino che scioglie ogni dubbio sul proprio argomento e recita così: dieci cose da non fare quando perdi il tuo cane a Cipro.
Sì perché il quadrupede peperino, che varca il confine ignaro dei vincoli che gli umani impongono ai suoi passi, ha un padrone, Yannis, lo stropicciato e magnetico Adam Bousdoukos, che ricordiamo nel bel Soul Kitchen di alcuni anni fa, spiantato musicista, ricco di debiti, single da troppo poco per non provare ancora affetto e nostalgia verso la sua ex, Kika (Vicky Papadopoulou), ormai prossimo alla partenza verso l’Olanda, traguardo mentale e fisico che rappresenta simbolicamente l’Europa, la nuova vita, la rinascita della linfa artistica, l’uscita dall’isolamento geografico, umano, politico e sociale che Cipro, volenti o nolenti, impone e la possibilità di ricominciare altrove, nel mondo considerato moderno, lasciandosi alle spalle il vecchio universo di appartenenza, barcollante, povero e dimentico di sè.
Ma a tre giorni dalla partenza tanto attesa, ecco che Jimi va a finire nella parte turca; quella più sbagliata, la meno accettata, lo Stato che non esiste se non per la Turchia, che non ha polizia vera e propria, ma soldati sciolti e pullula di coloni, ossia turchi che si sono appropriati di possedimenti ciprioti, espropriando, comprando, o uccidendo, che si sono insediati laddove hanno potuto o che sono semplicemente nati in questa parte di isola dopo l’occupazione. Chi ha diritto di restare? Chi di riavere indietro? Chi di tornare? Chi deve stare dove?
Yannis attraversa i varchi e rintraccia l’animale, ma, se per gli esseri umani il passaggio di frontiera è possibile tramite visti e passaporti, non lo è altrettanto per gli esseri animali: infatti in base ad un regolamento di queste zone, applicativo di tanto specifiche quanto sterili direttive comunitarie, non è possibile tras-portare piante, prodotti o animali di alcun tipo da un’area ad un’altra.
Così Jimi non può muoversi da lì, forse verrà dato in affidamento o forse sarà soppresso; e poiché il cane è ciò che di più caro Yannis mantiene del suo intenso rapporto con Kika, decide di fare di tutto per riaverlo: si imbatte in delinquenti che cercano di contrabbandarlo invano insieme a della droga, si fa aiutare da un colono (il bravissimo Faith Al) che scopre vivere nella sua casa d’infanzia e sognare anche lui l’Europa, trova di nuovo la complice alleanza di Kika decisa a riavere il suo figlioccio peloso, cerca di aggirare l’ostacolo confine con ogni mezzo che possiede, sia su terra che su acqua.
Il nostro eroe resta incastrato nell’assurdo meccanismo, ai limiti del verosimile, che ha spezzato e fiaccato la vita e l’economia di un piccolo paese, denunciandone con la sua maldestra e comica epopea canina, l’invivibilità di fatto e il controverso quotidiano: esiste uno Stato che non è padrone di sé da un bel po’ di tempo e alla comunità internazionale va bene così; e non è nella lontana Palestina, ma nel nostro Mar Mediterraneo.
Verrebbe da dire, dai molti discorsi che ironicamente si toccano o a cui si allude sorridendo disillusi, quale paese lo è oggi, padrone di sè? Il protagonista stesso non lo è per il suo cane, una capitale non lo è per il suo territorio, un territorio non lo è per il proprio Stato, uno Stato non lo è di fronte ad un continente. Ogni muro eretto e lasciato lì a marcire è complice della sventura di sfigurare il volto di un paese e costruirgliene sopra un altro artificiale e difficile da digerire: cambiano i posti, i nomi, le etnie, le religioni, le famiglie; si confondono i perimetri interni ed esterni, fino a che la questione perde attenzione reale e si trasforma in miopia surreale; ed infatti non ci si interessa più al destino di uomini spezzati tra due fronti, ma al pericolosissimo ed insidioso trasbordo di un quadrupede.
Il film ha il pregio di essere un’odissea simpatica e rocambolesca, che seduce e trascina, con intelligenza, giusta dose di brio e di tempi esatti per il sorriso e per la riflessione; danza su se stesso con una colonna sonora folk-melanconica, che rafforza l’atmosfera di vissuto e guai ed esce a volte in diretta dalla stessa voce e dalla chitarra di Yannis. Il panorama ricostruito verosimilmente rimanda ad un campo di battaglia o ad una città fantasma, una zona di demilitarizzazione non convinta, nei meandri di un’identità violata, affranta, scambiata, che nonostante tutto resiste e ricorda se stessa con fierezza e coraggio.
L’essere fratelli è una locuzione spesso ripetuta, un po’ per celia, un po’ per risolvere davvero degli intoppi di viaggio, un po’ per guardare in fondo agli animi di persone che, di qua o di là, sono tutte sulla stessa barca. Il nemico si fonde meravigliosamente e funambolicamente con l’amico e gli alleati sono appartenenti alla stessa unica terra: combattere la divisione; schierarsi per l’inclusione; non basterebbe altro sia a questa storica striscia di terra nel mare, sia al resto del globo impaurito dalla diversità, rigurgitante razzismo in forma scolastica e brutale.
Questo semplice e convincente road-dog-movie, abbraccia gli animi e le prospettive unificandole; disattende i possibili finali con una risata beffarda che illumina di idiozia la percezione umana del giusto ordinamento delle cose, restituendo peso e dignità al singolo individuo e al singolo popolo.
Il protagonista incarna simbolicamente molti aspetti: si chiama Jimi come Hendrix, il chitarrista cantautore maledetto e pacifista della leggenda musicale internazionale, non è di razza ma delle razze fa un incrocio essendo un bastardino, è un cane-antidoto alla solitudine delle vittime delle barricate contemporanee, che sembrano rifiorire oggi con violenza e sprezzo di tragici esempi storici, è il miglior amico dell’uomo e dimostra in modo tristemente ironico quanto sia impossibile una cosa solo nella mente di chi vuole vedere metà della verità, pur sapendo che ne esiste un’altra possibile, complementare e giusta.
Le barriere sono nella testa di chi guarda e di chi le mette, non nell’indole umana, tantomeno nelle zampe di un cagnolino.