Il Giappone è ancora oggi una sorta di mondo a parte. Un luogo unico, immenso, capace di conservare ogni singolo valore a dispetto del tutto che attorno lo avvolge. La cultura giapponese, sempre affascinante, spesso impenetrabile, continua ad ammaliare intere generazioni di curiosi occidentali, desiderosi di comprendere gli usi e le tradizioni di questo popolo meraviglioso. The Outsider, patrocinato da Netflix, si propone come intermediario, come porta magica verso l’oriente.
Il desiderio di Martin Zandvliet, regista del lungometraggio uscito nel 2018, sembra essere quello di avvicinare gli spettatori più estranei, fornendo loro un prototipo più o meno verosimile della cultura nipponica. Eppure, come ogni mediazione o esperimento, anche questo proposito cammina lento sul filo del rasoio, pronto a resistere o schiantarsi al suolo.
Vediamo assieme cosa è successo in questo caso.
Nick Lowell è un soldato americano che, per motivi non specificati, si ritrova ad essere prigioniero in un carcere giapponese. Siamo negli anni ’50 e, purtroppo, i residui dell’ultimo conflitto mondiale non sono stati dissolti ancora. Nick, che con la testa bassa e la barba lunga sta facendo il suo lavoro, salva la vita ad un prigioniero che ha tentato il suicidio. Le guardie, per nulla felici dell’accaduto, lo sbattono in cella di isolamento assieme all’uomo.
È qui che Nick fa la conoscenza di Kiyoshi, membro della temutissima Yakuza. L’uomo propone a Nick un semplice accordo: l’americano lo aiuterà a scappare. Lui, una volta fuori, lo farà liberare tramite i suoi “fratelli”. Nick non può fare altro che accettare. Poco dopo, la promessa viene mantenuta. L’ex soldato finalmente esce.
Da quel momento in poi, Nick scopre il mondo della Yakuza. Un mix letale di completi eleganti, valori granitici, discorsi enfatici e sparatorie. La famiglia Shimatsu, retta dall’anziano Akihiro, è in rotta con la più giovane famiglia Seizu. Un contrasto che presto o tardi sfocerà in conflitto, costringendo Nick a combattere di nuovo.
The Outsider vanta una capacità di intrattenimento tutto sommato buona. La pellicola, nonostante alcuni momenti estremamente rallentati, prosegue liscia verso il finale. I momenti di tensione funzionano, aiutati dalla buona alternanza tra azione, dialoghi e riflessioni. Manca, in questo senso, un vero background narrativo, qualcosa che prepari il terreno in attesa dell’intreccio.
Lo stesso avanzamento della trama, seppur fluido, non sempre riesce a essere coerente. La vicenda, infatti, dimostra soprattutto nel finale una certa mancanza di idee, che da un lato ricalcano lo stile occidentale dei gangster movie, dall’altro quello delle opere giapponesi più tradizionali. Non aspettatevi, dunque, nessun rimando all’opera di un Kurosawa. Questo artificioso mix funziona soltanto a metà. Il ritmo ne guadagna. La storia ne perde. E tanto.
Nick, nonostante l’ottima interpretazione di Jared Leto, è un protagonista scialbo, privo di passato e di apparenti motivazioni. Ciò rende alcune sue azioni semplicemente incomprensibili, per nulla aiutate dai numerosi silenzi messi in mostra durante la pellicola. Spesso avremo la sensazione che le poche battute a lui affidate servano più che altro per mascherare la poca profondità del personaggio.
Anche i comprimari, che pure vantano personalità eccellenti come Tadanobu Asano, non riescono a brillare. La mancanza di spessore perseguita ogni singolo volto, rovinando il sincero tentativo della produzione di creare scene intense e dense di significato. In questi istanti, più che coinvolgimento proveremo imbarazzo. Come se stessimo guardando un qualcosa del tutto fuori luogo.
A rafforzare questa mancanza, emergono una serie immensa di errori e semplificazioni. Il Sol Levante criminale descritto da Zandvliet, alla fine dei conti, è poco più di un surrogato furbo e impersonale della realtà nipponica. La Yakuza descritta dagli sceneggiatori non si distacca affatto dai clan tipici della malavita occidentale, tralasciando quasi del tutto l’intricato sistema che domina le gerarchie interne alla “mafia” giapponese.
Questo fattore, apparentemente conciliante e necessario, aliena di fatto la pellicola ad entrambe le fazioni. Chi conosce bene la cultura nipponica, troverà infatti insopportabile una tale mole di approssimazione. Chi invece non la conosce affatto, non riscontrerà nulla di così diverso e peculiare da quella occidentale cui è abituato. L’appeal mediatico di The Outsider, in buona sostanza, finisce per annullarsi da solo.
A tappare in parte le falle giunge una bellissima atmosfera. Gli anni ’50, incredibile a dirsi, funzionano sempre. La Osaka del 1954 è splendida, ricca di odori, suoni e colori. Anche qui, purtroppo, domina l’ossessione degli stereotipi. Le gheishe saranno infatti ovunque, accompagnate dai lottatori di sumo, dalle katane in bella vista e le camminate interminabili degli Yakuza tra la popolazione impaurita.
Anche le musiche non sembrano affatto quelle di un film ambientato in Giappone. Se le applicassimo ad uno qualunque dei lavori prodotti in occidente, nessuno noterebbe la benché minima discrepanza.