André Bazin, uno dei più grandi critici cinematografici di tutti i tempi, parlando di cinema statunitense era solito affermare questa frase: “il western è il cinema americano per eccellenza”. Se si prendesse per vera questa frase, si potrebbe di conseguenza affermare che John Ford, uno dei padri e massimo esponente di questo genere, sia stato il maggior rappresentante ed esportatore di quelli che erano i valori, la cultura, le leggende e il grande passato del continente americano. Nei suoi quasi cinquant’anni di carriera il regista ha firmato oltre 100 lavori, moltissimi sono stati i film grandiosi, tanti i capolavori, ma dopo che Ford nel 1956 eseguì l’ultimo ciak di Sentieri selvaggi, niente è stato più lo stesso.
Sentieri selvaggi, trama
Texas, 1868. Ethan Edwards, un reduce sudista della guerra di secessione, dopo tre anni di campagna decide di far visita alla propria amata famiglia. Questa è formata dal fratello Aron, dalla cognata Martha e dai loro figli Lucy, Debbie, Ben e dal figlio adottivo Martin. Con quest’ultimo, a causa delle origini indiane e la mancata consanguineità, Ethan non mostra molta simpatia ed anzi traspare un certo disprezzo. Il giorno che segue questo ricongiungimento familiare, il capitano e reverendo della zona arruola Ethan e Martin per dare la caccia a un gruppo di razziatori di bestiame che sta disturbando gli abitanti del posto. Dopo qualche indagine è chiaro che non si tratta di semplici banditi, le razzie e le uccisioni animali sono opera dei Comanche, i quali hanno creato un diversivo per allontanare gli uomini “armati” dalle proprie case. Una volta capito cosa sta succedendo, ognuno cerca di tornare alle proprie dimore, ma è ormai troppo tardi. Ethan e Martin trovano la casa in fiamme e tutti i componenti della loro famiglia sono stati brutalmente uccisi dai pellerossa. Due corpi mancano però all’appello, quello di Lucy e della piccola Debbie. Questo porterà Ethan e Martin a seguire le piste lasciate dai rapitori, dando il via ad una lunga e sanguinosa caccia lungo i deserti e le lande del continente americano.
Un western che fa da spartiacque, una rivoluzione per il genere
Parlare di un capolavoro assoluto come Sentieri selvaggi, risulta essere un operazione poco semplice. Questo non solo perchè ci si trova difronte ad un opera perfetta sotto il profilo tecnico, ma anche perchè lungometraggi come questo hanno contribuito ad evolvere e trasformare non solo il loro genere di appartenenza, ma tutta la settima arte.
Partendo dalla genesi dell’opera, Sentieri selvaggi (in lingua originale The Searchers) si ispira all’omonimo romanzo del 1954 di Alan Le May, che condusse negli anni diverse ricerche su 64 casi di bambini rapiti dalle popolazioni pellerossa. In particolare, la storia della piccola Debbie sembra ricordare il caso di Cynthia Ann Parker, una bambina che venne rapita dai Comanche e che visse con loro per più di 24 anni fino ad essere liberata dopo una lunga e disperata ricerca da parte dello zio.
John Ford, sceglie quindi un triste fatto di cronaca del passato per raccontare un epopea western ricca di avventura, e caratterizzazione dei personaggi. Su questi ultimi bisogna sicuramente soffermarsi, in quanto una delle grandiosità di Sentieri selvaggi sta proprio nel come Ford dia nuova linfa al genere, soprattutto grazie ai suoi protagonisti. Prima dell’avvento di John Ford nel mondo del cinema, il western era un genere di esclusivo intrattenimento. Andando al cinematografo a vedere un film di questo tipo, quello che il pubblico si aspettava era un oretta o due di intrattenimento dove poter vedere i vecchi fasti del Far West, e dove i cowboy erano solo un mezzo di rappresentazione di questo vecchio e tramontato mondo, e non dei protagonisti approfonditi e sul quale vi fosse un lavoro di racconto, evoluzione e minuziosa metafora della società passata e contemporanea. Con Ford però, tutto questo cambia in modo estremamente veloce.
Già in precedenti lavori come Il cavallo d’acciaio (1924), Ombre Rosse (1939) e Rio Bravo (1950) cominciava a vedersi un attento lavoro sui personaggi delle proprie pellicole, che pian piano assumevano sempre maggior rilevanza e incarnavano i valori del mondo al quale Ford faceva riferimento. Con Sentieri selvaggi però, il regista si spinge ad un livello successivo, non solo creando eroi e antieroi di grande spessore, ma facendo sì che ognuno di loro rappresenti ideali e pensieri del sentimento americano, mostrando come quest’ultimo abbia subito un lungo processo evolutivo.
Ford prende lo stereotipo tipico utilizzato fino ad allora, secondo cui i cowboy erano i “buoni” e gli indiani erano i “cattivi”, e lo rimodella. Ethan Edwards, magistralmente interpretato da John Wayne, è un personaggio pieno di luci e ombre, un decorato militare di guerra forte e impavido, ma allo stesso tempo un uomo che porta il peso di rappresentare importanti tematiche quali il razzismo e la rabbia incontrollata, frutto di quest’ultimo. Nonostante il personaggio subisca un evoluzione positiva nel corso della pellicola, John Ford non perdona però queste condotte e, come vedremo, nel finale emetterà una pesante sentenza nei suoi confronti. Martin (Jeffrey Hunter) è la vittima della rabbia di Ethan, nonostante il suo animo buono e la sua ammirazione nei confronti dello zio. Una cattiveria ingiustificata, un odio che non ha un origine, proprio come il razzismo.
Questo discorso non vale solo per questi due personaggi. La famiglia Jorgensen, nonostante sia composta da una coppia di anziani coniugi e dalla loro unica figlia, incarna i nuovi valori dell’ America che verrà, una nazione evoluta e con un occhio di riguardo nei confronti dell’integrazione. Emblematica e meravigliosa la scena finale del film, dove la telecamera è posizionata all’interno dell’abitazione dei Jorgensen, sulla soglia della porta e vediamo via via entrare all’interno Debbie (Natalie Wood), i suoi nuovi genitori adottivi, Martin e la sua fidanzata (Vera Miles). La porta poi si chiude lasciando fuori Ethan Edwars. Una indimenticabile ed efficace metafora di una nuova società, un nuovo mondo che per sbocciare deve “tenere fuori” la rabbia e il razzismo del passato.
Un western che trasforma il genere, dandogli una maturità e una componente filosofico-riflessiva mai vista prima, un lavoro paragonabile a quello che il collega Stanley Kubrick farà qualche anno dopo con il capolavoro fantascientifico 2001: Odissea nello spazio.
Una rappresentazione dei luoghi che ha fatto la storia
Autori come George Lucas, Akira Kurosawa, Sam Peckinpah, Clint Eastwood e Sergio Leone hanno spesso dichiarato di trarre forte ispirazione da John Ford ed in particolare da questo film. Steven Spielberg ha addirittura confessato di guardare Sentieri selvaggi prima di iniziare a girare un nuovo film. Un ammirazione ben visibile nelle opere dei registi citati in precedenza. Negli anni Ford è stato definito come il regista che ha “inventato i grandi spazi”, questo grazie al grande e studiato utilizzo dei campi lunghi, lunghissimi e delle panoramiche visibili in tutti i suoi lavori. Sentieri selvaggi non è da meno, anzi qui l’utilizzo delle ambientazioni esterne e dei paesaggi è espresso al suo massimo. Questo non solo per dare grande spettacolarità visiva, ma soprattutto per dare “vita” all’ambiente e renderlo un personaggio vivo quanto i suoi colleghi in carne ed ossa. Il deserto si anima, le pianure innevate sono fredde come la volontà di Ethan di vendicare la propria famiglia e la luce del sole proietta delle gigantesche ombre, minacciose e imponenti come le grandi e spietate tribù indiane.
Il paesaggio viene usato qui anche come mezzo narrativo. Una grande novità proprio di questo film e l’utilizzo degli ambienti circostanti per mostrare il passare del tempo. Ambienti colpiti dalle forti calure, seguite da pianure innevate e via dicendo raccontano un lento alternarsi di stagioni. In questo modo, in sole due ore di visione, il regista riesce a far percepire allo spettatore il trascorrere di molti anni.
Conclusioni finali
Definire Sentieri selvaggi un capolavoro non è assolutamente una mossa azzardata, come ha invece sostenuto la critica del tempo, anzi qui si ha davanti qualcosa di più, un opera innovativa sotto tutti i punti di vista, un film che ha fatto scuola e che ora, a distanza di decenni, è giustamente ritenuto come il più grande western di tutti i tempi e uno dei capisaldi della settima arte.