Se la domanda fondamentale ne La finestra di fronte (2003) era “Riesci a vedere?” in Napoli velata (2017) è “Riesci a sentire?”. L’ultima narrazione originale del regista turco Ferzan Ozpetek, Napoli velata, non mostra ma rivela. Soltanto coloro che non guardano con gli occhi riescono a sentire la magia legata al mistero, all’irrisolto. Come il velo che volutamente viene posato sui suoi protagonisti, ambigui e duali, e sulla città di Napoli, in cui intrighi amorosi e riti popolari prendono vita, il regista lo avvolge alla sua opera. Il capoluogo campano è designato da Ozpetek come l’unico testimone onnisciente, capace di accogliere e raccogliere i pensieri dei suoi abitanti come se fossero figli, persi ma mai perduti del tutto.
Ozpetek realizza un film tenuto in piedi, in una prima parte, dagli sguardi, così come avveniva ne La finestra di fronte (entrambe le pellicole hanno come protagonista Giovanna Mezzogiorno). Gli occhi si incontrano, comunicano, si accordano. Si inseguono fino a raggiungere fisicamente la loro preda. I sorrisi accompagnano e accettano quegli sguardi fugaci fino a quando quelli stessi sguardi non cessano di esistere. La tensione erotica tramuta in ossessione, che ha sempre a che vedere con lo sguardo della protagonista. Cosa è reale e cosa invece non lo è? L’ossessione è capace di plasmare la mente fino a mostrare ciò che nella realtà non esiste? Ma il sentire non è forse più importante del vedere?
La protagonista si trova a dover lottare contro un presente frammentato che la pone di fronte a uno scenario del passato. Le ferite, le sue memorie perdute, urlano per essere riportate a galla. É così che il dolore presente trova conforto in quello passato, che la solitudine diventa accettabile solamente rifacendosi a quella sensazione di vuoto che aveva provato anni prima. La passione si dissolve e resta soltanto l’incertezza dell’esistenza umana.
I due protagonisti, Giovanna Mezzogiorno e Alessandro Borghi, portano avanti in contemporanea una doppia vita: che si sviluppa sia sulla superficie che nel sottosuolo. La donna, medico legale, passa metà delle sue giornate in sotterranei illuminati dalle fredde luci a neon e l’altra metà tra il calore delle vie popolate di Napoli. La razionalità e l’irrazionale coabitano nella sua mente. Lo stesso vale per l’uomo, un contrabbandiere d’arte. I loro corpi non potevano che unirsi in superficie ma, nonostante l’incontro, le loro vite e le loro personalità vagano al di sotto della città. Pur dedicandoli nella maggior parte delle riprese dei primi piani, Ozpetek continua ad incorniciare la coppia come se fosse un oggetto mascherato, protetto dall’ideatore, non facilmente scrutabile dall’esterno.
Le maschere, prima fittizie e poi tangibili, diventano una chiave di lettura della pellicola. I volti mentono, le voci raccontano storie ma, senza alcuna prova, quello che viene detto non è che leggenda (alla quale si può scegliere di credere o meno). L’organo sensoriale che le maschere non riescono a proteggere sono gli occhi: gli stessi che nella prima parte erano fuggitivi ma espliciti e che qui diventano velati, intrisi di mistero, opachi. I personaggi incarnano quelle maschere esanime privati della capacità di vedere, tant’è che i pochi che riescono a guardare oltre vengono puniti dalla sorte.
Non a caso l’amuleto custodito dalla protagonista è un occhio che, si sostiene, porti fortuna a colui che lo indossa. L’occhio metallico è uno strumento estraneo che permette di fare chiarezza sulla realtà, cosa che non è possibile fare quando si è coinvolti all’interno di una relazione. La pace verrà trovata solamente quando la verità mostrata dall’occhio oggettivo verrà accettata dalla protagonista che, non avendo altra scelta, si lascerà inghiottire tra le strade di quella stessa madre che l’ha partorita. I passi fanno rumore ma il corpo sparisce, ciò che resta è l’anima. La capacità di vedere va oltre il visibile ma, in quest’ultimo caso, l’atto di fede viene chiesto al pubblico.
Con Napoli velata Ozpetek crea un melodramma che glorifica la figura femminile come eroica, posizionandola in un intreccio che ricorda episodi appartenenti alla mitologia greca. Amore e morte restano i temi portanti della narrazione ma a differenziarla subentra la coscienza, che funge da catalizzatore di emozioni che invadono la protagonista. L’eccessiva soggettività scaturisce in un vortice allucinatorio che Ozpetek anticipa già dalla prima inquadratura, una rampa di scale ripresa dal basso che ruotando emula i movimenti oculari.
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