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Mani nude: lottare sul filo del rasoio

Quando lo stivale cinematografico incontra la buona vecchia "ontologia delle botte"

Come sorta da un sogno lucido con protagonista un connubio tra la vena cinica di David Fincher e le molteplici sfumature delle atmosfere scorsesiane, Mani nude (2025) di Mauro Mancini – opera seconda del regista classe 1978 dopo Non odiare (2020) – si presenta al pubblico nostrano come una violenta ventata d’aria fresca, dichiarando sin dal primo secondo la propria intenzione di non voler scendere a compromessi con nessuno, nel bene e nel male.

Mani nude – Trama


Cosa resta dell’identità, quando la legge di Darwin smette di essere teoria e diventa l’unica certezza, senza appello né spiegazioni?
In tal senso, Mani nude pone in primo piano il personaggio di Davide (interpretato da un ottimo Francesco Gheghi), un ragazzo di buona famiglia trascinato contro la sua volontà in una dimensione narrativa a lui completamente estranea, costretto a combattere per la propria vita. Ma prima ancora, è obbligato a perdere ogni legame che possa ostacolare la sua trasformazione e ostruire i suoi demoni interni: l’uomo è così destinato a diventare bestia, capace di tutto pur di continuare a marcire nel proprio dolore.

Immerso nell’oscurità fisica e psicologica e rinchiuso in un camion con un perfetto sconosciuto che comincia ad aggredirlo fisicamente, Davide si troverà costretto a prendere una decisione nell’immediato: uscire da quel camion vivo o morto?
È questo il punto di non ritorno, da cui ogni certezza è destinata a essere lacerata.
La brusca transizione tra mondo ordinario e straordinario, volendo scomodare un certo Vogler, non ha nessun interesse di rassicurare lo spettatore.

Un’insalata di influenze cinematografiche

Il camion non rappresenta un’evasione dalla realtà. Il camion è la realtà. E in questa nuova vita, non può esistere alcun Davide.
Le radici con cui il protagonista – e insieme a lui lo spettatore – ha iniziato il proprio viaggio, devono essere strappate con violenza, così da permettere allo shock di entrare in circolo più vorticosamente e fungere come carburante per una rinascita forzata che dalla sete di vendetta (rivisitando il tutto con chiave Park Chan-wookiana, dentro il cui macrosistema narrativo sarebbe insolito non vedere spiccare tra le influenze la pellicola Oldboy) possa trovare una propria e personale linfa vitale.

Perché, in fondo, si sa: chi si ferma è perduto. E Davide non ha il tempo di ragionare, metabolizzare il dolore o domandarsi perché sia stato strappato dalla sua bolla di vivace ignoranza. Deve combattere. Deve diventare Batiza. E lo deve fare al più presto ,se vuole guadagnarsi un altro giorno di vita.

Mani nude

In questo ecosistema narrativo, il lucido realismo dipinto da Mauro Mancini ringrazia il Tyler Durden pop-fightclubiano e allo stesso tempo gli volta le spalle per abbracciare una propria identità più cruda in cui permettere al pubblico di tessere una conoscenza intuitiva dello spazio narrativo – pur senza mai riuscire a identificarlo completamente. È un vuoto inquieto e indefinito, ma che gioca a favore del film ponendo come terreno narrativo modello uno spazio dove l’angoscia passeggia indisturbata.

Il fattore psicologico dentro Mani Nude

Un pò come nei circuiti capitolini de La città proibita – di Gabriele Mainetti-anche qui il contesto psicologico finisce per inglobare l’intero spazio narrativo e i suoi personaggi dentro un incubo lucido da cui appare impossibile fuggire. Ne è un esempio calzante il personaggio imponente-e forse a tratti impotente- di Minuto (interpretato da un Alessandro Gassmann decisamente a fuoco). Quest’ultimo si presenta infatti come un uomo dalla duplice maschera, le cui ombre più nascoste verranno messe alla prova proprio quando il leader sarà chiamato ad allenare il nuovo arrivato, Batiza.


In merito a ciò, il tema del combattimento ruota perennemente attorno al giro di scommesse clandestine che governa l’intera dimensione di Mani Nude. Laddove il singolo si piega – contro la propria volontà – alle logiche dello spettacolo, così l’ascesa dantesca impara a cedere il passo a un contrappasso riscritto in chiave moderna, che fa della sopravvivenza il proprio unico credo, e della pornografia del dolore il proprio unico spiraglio emotivo.


La paranoia attraversa il primo atto con insistenza, portando con sé un audace richiamo a Toro scatenato (1980) di Martin Scorsese. In tal senso, e al netto del confronto cromatico – da cui il deterioramento del dualismo tra bianco e nero di Scorsese esce inevitabilmente vincitore, oltre che protagonista dall’ingeneroso faccia a faccia– Mani nude opera con rispetto e, tramite lo sguardo, si lascia arricchire da una serie di sfumature regalategli dall’estroso e carnivoro cinema americano che fu.
All’interno del ring tutto sembra urlare aiuto, ma allo stesso tempo tutto è silenzioso. Inerme. Ogni colpo è tratteggiato con lucidità e risulta capace di innalzare la pellicola, ben consapevole dei propri punti di forza – ma forse meno delle debolezze.

Un’opera non esente da criticità


Proprio quando l’impalcatura sembra salda infatti, qualcosa comincia a scricchiolare, con il film che si trova suo malgrado a inciampare qua e là in un paio – per essere generosi – di soluzioni narrative comode e estremamente prevedibili. La seconda parte, comunque lucida nella messa in scena, fatica a mantenere la continuità emotiva meticolosamente costruita sin dai primi attimi di vita della pellicola: le cicatrici del protagonista si trovano così a scomparire in modo eccessivamente semplicistico, l’inquietudine dei protagonisti rimane debolmente nei suoi non detti ,e questi ultimi dal canto loro non riescono mai a emergere davvero.


Come in un effetto domino, le relazioni interpersonali, così ben cucite nel primo atto secondo l’accademica filosofia del “less is better”, finiscono col decomporsi all’interno del loro strato più fragile, portando con sé l’intera struttura a essere ugualmente efficace, ma anche inevitabilmente meno spontanea.
Il tutto porta l’intera struttura a confluire nel terzo e ultimo atto, in cui il regista appare concentrato nello sfidare disperatamente i ticchettii del proprio orologio, come a dover fare i conti con un countdown prossimo al termine del suo ciclo. La parentesi conclusiva proposta al pubblico appare sicuramente intrigante, ma si trasporta fino ai titoli di coda con poca convinzione e soprattutto con eccessiva frenesia, in un finale che andava tassativamente scritto con più cura.

Il risultato? Un pugno ben assestato, ma non letale. Mani nude colpisce, disturba, affascina — ma inciampa quando dovrebbe affondare il colpo.
È un film sporco, irrisolto, a tratti sbilenco. Ma è vivo. E in un cinema che troppo spesso ha paura di sporcarsi le mani, questo è un segnale da non sottovalutare.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e e sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Mani nude colpisce, emoziona, ma non affonda quando dovrebbe dare il colpo di grazia allo spettatore. Nel complesso una convincente prova da parte del regista Mauro Mancini, la cui opera cala nella seconda parte ma regge grazie ad una buona regia e un ottimo cast
Andrea Distefano
Andrea Distefano
Nato con la settima arte nel sangue, Andrea Distefano nasce a Roma il 28 ottobre 2002,ama la scrittura in tutte le sue forme e nel tempo libero venera i cereali Kellogs,il marchio Lego e Stanley Kubrick. È anche una persona seria, ma questo non lo ammetterà mai.

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