Mi piace spesso, assistere alla scomposizione parossistica dell’ordine. Mi piace ancor più quando, rispetto alla concatenazione dei fatti, questa scomposizione è del tutto inaspettata. Mi diverto proprio, se questa scomposizione accade quando è generalmente condivisa la premessa contraria, ossia che in una data circostanza viga l’ordine.
Ecco, l’albero del vicino queste caratteristiche le ha tutte e tre: nella gelida Islanda, campionessa per tradizione e percezione comune, di verde, ghiacci, vulcani, civiltà, pace e gnomi, nelle periferie tristi tristi di città che anche lì proliferano, tra villette geometriche e anonime come poche cose immaginabili, all’interno di giardini limitrofi appartenenti a rispettabilissimi vicini di mezza età, scoppia un letterale finimondo.
Casus belli un acero in pieno rigoglio, esemplare immaginiamo raro e, nel suo sorridente sviluppo, fortunato, se ci figuriamo per un attimo il probabile microclima locale in cui si trova a crescere, più umido e piovigginoso che non radioso: ebbene le fronde sfrontate del vegetale coprono troppo spesso il sole di cui la bionda Eyborg (Selma Björnsdóttir), neomoglie di Konrad (Þorsteinn Bachmann) fa ghiotte scorpacciate nelle sue mattinate di benessere tra tintarella e corroboranti pedalate in bici. Il paziente marito lo fa presente a Baldvin (Sigurður Sigurjónsson), l’altro paziente marito vicino di casa, che si dichiara ben disposto a sfrondare l’amazzonico arbusto.
Senonchè Inga (Edda Björgvinsdóttir), la moglie del paziente Baldvin, non è per nulla d’accordo: da quando suo figlio Ugy è sparito, o meglio è venuto a mancare, o meglio ancora si è ucciso, ma non diciamolo a voce alta, ha sviluppato una profonda affezione per quell’albero, oltreché per il vino rosso e per la sua gatta; al contrario sembra essere abbastanza insofferente sia verso Eyborg di cui non sopporta lo stile di vita a suo dire da sfrontata e comoda parassita sia verso Atli (Steinþór Hróar Steinþórsson), l’altro figlio, il “superstite”, meno bravo, meno forte, meno intelligente del fratello scomparso, da poco in piena crisi coniugale con la moglie Agnes, impelagato nella lotta per la custodia della figlia, temporaneamente ri-stanziato proprio da mamma e papà.
E certo il tempismo con cui Atli torna a casa non gli giova: perché un dissapore sulla flora contigua diventa sfida tra famiglie e poi faida tra vicini in una degenerazione colossale, assurdamente catastrofica e glaciale che toglie ogni speranza ed irride come pioggia caduta sul bagnato.
Tutto grazie ad una più o meno fitta concatenazione di fatalità e crimini, che se non fossero tragici sarebbero comici: gomme sgonfie, felini, quadrupedi, videosorveglianze, motoseghe, tende all’aperto, incidenti casuali e un po’ meno casuali, grosso modo mortali.
Il film dell’impronunciabile regista islandese Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, presentato alla 74 Mostra Internazionale del cinema di Venezia nella sezione Orizzonti, proposto tra i semifinalisti agli Oscar 2018 come miglior film straniero, sorride mentre schianta, senza scomporsi di un millimetro, grazie ad un algido mix di commedia nera, tragicomica ironia serpeggiante ed un finale tarantiniano clamoroso e surreale.
Tutto è metafora di un disordine interiore, rabberciato dalla rarefazione con cui si distendono i panorami freddi, conchiusi o ottusamente spalancati degli esterni e degli interni coinvolti; c’è un dolore diffuso tra tutti i personaggi di scena, diffuso e sottomesso, diffuso e silenziato: Eyborg e Konrad alla ricerca disperata di un figlio oltre le età più fertili, Inge e Baldvin nel lutto soffocato di un altro figlio fantasma autoannientato, Atli e Agnes al capezzale inspiegabile e chiarissimo del loro amore.
Il portato delle vicende di ciascuno è schiacciato da enormi non detti ed energie represse, mascherate da benestare quotidiano che non ha nulla del bene e nulla dello stare: inquietudine è il secondo nome di questa provincia umana e non c’è conformazione geografica che tenga. Non c’è sfogo, perdono o redenzione al sacrificio e ai peccati di ognuno: sono vani i tentativi di risolvere ragionevolmente i problemi, come se la parabola che si vuole condurre debba per forza procedere a rotta di collo verso l’esasperazione.
E’ la denuncia del tempo cinico con cui non facciamo i conti, dell’ostinazione generata dalla solitudine e dalla non comprensione reciproca; il mito del supercontrollo e della grande civiltà che cede e si sfascia come nelle più antiche ed iconiche tragedie greche, per di più in questo caso, senza catarsi.
Eppure tutto è narrato con dissapore e contrasto nordico: il distacco che uccide con calma, qui sorride prima di uccidere, contribuendo ad esaltare toni e caratteristiche della beffa grottesca complessiva, che si deforma progressivamente, mantenendo alte tensione ed aspettative proprio perché “tutto è a posto e niente in ordine” .
Nessun percorso narrativo, nessuna trama personale, che pur potrebbe avere mille modi per risolversi od evolversi in modo costruttivo, segue la strada della pacificazione; nessun nodo viene al pettine: semmai cresce e si ingarbuglia esponenzialmente.
Su tutto e tutti veglia l’albero, totem simbolico, mefistofelico e angelico insieme, ammonimento biblico, muto e bellissimo essere vivente in grado di proliferare nel marcio, nei segreti e nel rimpianto che gli sgambetta attorno, tra i cui rami si attarda con frequenza ossessiva la cinepresa alla ricerca del sole della discordia che sembra quasi non esserci nemmeno oltre le foglie, come fosse un’illusione, un pretesto per far scatenare la guerra in un paradiso perduto che, in un modo o nell’altro, avrebbe avuto luogo lo stesso.
Con certo straniamento alla Kaurismaki, e teatralità pura di cui maggior interprete nel cast è la bravissima Edda Björgvinsdóttir nel ruolo di Inga, in bilico tra astio perfido ed oblio lamentoso, ridiamo e rabbrividiamo di fronte a questi parenti serpenti in salsa ipernordica, in cui il redde rationem apocalittico fa meno scena di quel che ci si aspetta, ma non meno dolore: non si piange, non si grida, non si raccolgono cocci, non si fa rumore, mentre il destino, con il passo felpato e capriccioso di un gatto, fa l’ennesima giravolta e sbeffeggia irriverente le perdite scatenate e subite.
Si resta immobili con la risata e il disgusto in gola a riflettere sulla solitudine cocciuta e fatale degli uomini che vivono raccontandosi il contrario, sulla cecità con cui si corre dietro a segni e simboli laddove a correre è solo il rancore, sulla vacuità che segue la vendetta, sul silenzio cattivo e sul silenzio buono e sulla difficoltà di distinguerli nei momenti cruciali.