Siamo nel 1939 in Inghilterra, all’inizio dello scoppio della Seconda Guerra Mondiale e di una delle scoperte più importanti nella storia Inglese. La nave sepolta, diretto da Simon Stone, racconta della rivelazione di Sutton Hoo, area che ospita due cimiteri anglosassoni di VI e VII secolo, tra cui una nave funeraria. Uno dei più importanti ritrovamenti archeologici anglosassoni, per la dimensione, per il valore testimoniale della metodologia di sepoltura e per l’elevato pregio delle suppellettili conservatesi nel tempo.
Il film, il cui titolo originario è The Dig, nasce ed è la trasposizione cinematografica dell’opera letteraria omonima di John Preston. Disponibile sulla piattaforma di streaming Netflix da febbraio 2021, il racconto segue in maniera ravvicinata le vicende che hanno visto protagonista Basil Brown (Ralph Fiennes), addetto agli scavi, con un’ampissima passione per l’archeologia. Il quale, viene assunto dalla benestante Edith Pretty (Carey Mulligan) al fine di disvelare ciò che si cela sotto i tumuli presenti nella terra di sua proprietà. Un intuito, una sensazione, sono ciò che guidano Edith all’inizio della vicenda. Sentimenti verso cui Brown risulta diffidente, ma che poi si ritroveranno a combaciare con i risultati migliori della vicenda.
Il vero e più importante, seppur immateriale, protagonista di La nave sepolta, è il tempo. Il tempo come soggetto fondamentale delle discussioni tra coloro che si impegnano nella vicenda, il tempo come lento mutare dell’universo, ma anche il tempo come flusso continuativo della vita nella quale tutti siamo coinvolti. Il tempo infinito e indefinito, il tempo invece finito e materiale degli individui. La grande paura dell’oblio e la risposta della testimonianza come importante elemento chiave di permanenza. Come tassello di un’unica storia collettiva a cui tutti partecipiamo e di cui siamo responsabili. Quando si decide di parlare di archeologia e riscoperta del passato, è inevitabile porre al centro delle riflessioni tutto ciò che implica un legame individuale e collettivo con l’avanzare del tempo. Il film Netflix lo fa con una delicatezza fondamentale, trasmessa anche dall’eleganza della fotografia e racchiusa nella composizione attenta dell’immagine. Una grazia tutta inglese, che accompagna importanti pensieri sul valore della conservazione e della riscoperta.
Qual è il grande e vero valore dell’archeologia, della testimonianza del passato, ce lo trasmette Brown attraverso la grande interpretazione di Ralph Fiennes. Il personaggio più connesso emotivamente, insieme alla signora Edith, a questa vicenda. Dalle parole di Brown emergono valori di fondamentale importanza generale, per tutta la nostra società, su cui è sempre complesso discutere e verso i quali abbiamo una grande responsabilità. In alcune battute di Brown trapelano fondamentalmente le grandi differenze tra l’appropriazione dell’oggetto come amuleto da venerare e invece l’importanza e responsabilità della conservazione dello stesso come elemento di costruzione ed educazione delle generazioni prossime.
Queste dinamiche, vengono sottolineate maggiormente con l’intervento inevitabile delle istituzioni museali nella vicenda. Dapprima solo esclusivamente da parte del museo locale, poi anche da parte del British Museum. Entrambi certamente con un grande interesse e valore di conservazione di ciò che è emerso dalle ricerche, ma dall’altro lato con un’imposizione invasiva e snobistica. Potremmo essere tutti d’accordo del valore nazionale del ritrovamento, ma difficile è definire chi ha il potere di potersi appropriare di un tale valore e dei meriti di una tale scoperta. Tanto che quest’ultima motivazione è una delle prerogative di chi si spinge in seconda battuta nell’impresa: il merito. Come viene specificato, Brown ed Edith, non verranno mai citati per l’impegno, solo negli ultimi anni è stato riconosciuto loro il valore delle loro azioni dal Museo. Inoltre, il periodo certamente non favorisce la conservazione delle opere nei musei, in quanto di lì a poco svuotati per divenire deposito di armi per la guerra.
Il tempo, come sopracitato, si fa protagonista anche dell’opera cinematografica. La dilatazione e la “lentezza” divengono prerogative non disturbanti in La nave sepolta, ma necessarie, per poter trasmettere la delicatezza propria dei sentimenti riposti nelle azioni. Stone, contrappone primi piani introspettivi a profondità di campo gremiti delle sfumature dei colori naturali della campagna inglese, che a tratti ricordano quelle che ritroviamo nei dipinti di Turner. Inutile dire che queste composizioni sono un costante piacere per l’occhio dell’osservatore, durante tutto il lungometraggio. Un grande lavoro di sovrapposizione e compensazione tra immagine e sonoro, tra linguaggio parlato e linguaggio delle immagini. Spesso attraverso una differita, che permette di trasmettere maggior enfasi ad entrambe le componenti.
La nave sepolta, è un’opera notevole di Simon Stone, che riesce a raccontare un importante pezzo di storia dell’Inghilterra. Un’ibridazione tra storia vera e rappresentazione, dove quest’ultima prevale. Nonostante sia incentrata sulla riscoperta della nave funeraria, La nave sepolta racconta trasversalmente anche molti altri elementi propri del periodo e l’aspirazione di scoperta generale, di lì a poco bloccata dalla guerra.