Dramma tailandese del 2019, disponibile su Netflix, realizzato dal regista e sceneggiatore Nawapol Thamrongrattanarit, Happy old year è un’opera aggraziata, romantico-familiare, che offre accesso al sentimento e alla riflessione esistenziale, oscillando tra il passato cui mettere un punto definitivo ed il futuro da disegnare secondo rinnovate e personali volontà.
In mezzo ci sono mode globali, estetiche straniere, una generazione che atterra il tempo con frenesia ipodermica ed inconsapevole, un’altra generazione che gli conferisce peso superiore alle proprie spalle, un senso del rapporto umano come oggetto deteriorabile, smarrito nel silenzio degli anni passati (gli old year del titolo), nella rassegnazione non affrontata, nella ferita mai medicata, nell’indifferenza dovuta e distratta di dover diventare grandi, forti ed inseriti nella società.
Happy Old Year trama
Protagonista è Jean (Chutimon Chuengcharoensukyng), giovane ragazza che, di ritorno dai suoi tre anni di studi di architettura in Svezia, decide di rivoluzionare la propria casa, un edificio ingombrato da strumenti musicali, mobili particolari, chincaglierie di ogni tipo, collezionate e volute dal padre: costui ora non è più con loro, li ha abbandonati e non ha intenzione di tornare, anche per questo motivo la figlia decide di sgomberare lo spazio vitale della famiglia.
La madre (Apasiri Nitibhon), che vive al pianterreno, dorme su una poltrona, si diletta a cantare al karaoke e non ha intenzione di separarsi da quegli oggetti, in particolare da un antico pianoforte. Ma Jean sembra irremovibile: bisogna svuotare lo spazio, per poter pensare e lavorare; un luogo occluso da cose è invivibile e fa male alla mente; bisogna essere minimali, come certa fotografia svedese d’interni le suggerisce. La sua stanza deve trasformarsi in uno studio, ammobiliato con lo stretto indispensabile: la ragazza convince a parteggiare per la sua causa anche il fratello Jay (Thirawat Ngosawang), che cerca di mandare avanti un proprio negozio on-line di vestiti e nella sua camera vive invaso da abiti appesi.
Così tra scontri più o meno frequenti con la madre, ferma nella volontà di difendere il ricordo del marito, Jean cerca di portare a termine il suo piano: all’ inizio liberarsi di ciò di cui non ricorda nulla è più che semplice, e le buste imballate fioccano e vengono spedite via, o vendute, a raccoglitori e collezionisti di buon gusto; ma quando iniziano a spuntare reperti di amici, regali di persone care, cose appartenute all’ ultimo fidanzato, con cui ha rotto i ponti bruscamente proprio alla vigilia del suo viaggio in Svezia, la situazione si fa più delicata.
Ogni oggetto ritorna alla memoria, automaticamente o per precise richieste esterne, e con esso una storia, una gratitudine, un evento, una felicità o un’infelicità: Jean deve ricucire ed accogliere tutto se vuole davvero voltare pagina ed andare avanti.
Happy Old Year recensione
Manuale sul come fare spazio, potrebbe essere un buon sottotitolo per Happy old year, che dopo una breve premessa iniziale, procede per punti, legando ogni momento in cui Jean si occupa di sbarazzarsi delle sue cose, ad una regola su come si deve comportare un buon artista dello sgombero: il risultato è un elenco numerato con gli imperativi corretti e necessari da applicare per liberare dall’inutile la casa in cui si abita e per ognuno di essi c’è un episodio in cui la giovane si scontra con la divergenza tra il dire ed il fare.
Tra gli step obbligati, contenuti in Happy old year, ci sono il fissare gli obiettivi e trovare la propria ispirazione e Jean ce li ha chiari, importati dall’Occidente freddo e nordico della patria dell’Ikea, con la convinzione radicata di trapiantare quel gusto nella sua terra, dove, però, per tradizione ogni dimora è un insieme stipato di beni mobili più o meno disordinati, in pieno stile horror vacui; poi si passa al non rivangare il passato, poiché se tutto resta presente come l’oggi, diventa impossibile separarsi da qualcosa, anche se risulta molto poco agevole concretizzare questo pensiero; è indispensabile non provare emozioni nell’atto del disfarsi di ciò che non serve più, non avere esitazioni ed essere senza cuore: in ciò cede maggiormente la forza di volontà della ragazza, poiché gli oggetti non sono solo ingombri inanimati, ma testimonianze di chi non c’è più, di chi si è perso, di chi si ha accanto, ma di cui non ricordiamo la vicinanza, di un’amicizia fedele, di una richiesta di aiuto, evasa o no, sono l’eco fisico e spirituale di un’emozione più o meno densa, che occupa, ha occupato o occuperà la vita, difficile estirparla a cuor leggero, con assoluta decisione.
Ancora tra gli imperativi esposti c’è non aggiungere cose, ma in ogni trasformazione di ambienti, qualcosa va e qualcos’altro entra: se per far spazio si restituiscono ricordi, se ne possono ricevere altri indietro, uguali e contrari, dello stesso peso, se non maggiore, che possono ben essere indispensabili nella nuova dimensione in cui si sta cercando di entrare. Ultimo comandamento del fare spazio, insidioso come i precedenti, è non voltarsi indietro mai, per scampare la tentazione di recuperare tutto e rimetterlo dov’era.
Jean prova a mettere in pratica ogni passo guidato di questo insolito manuale, ma più si addentra nella sua impresa più il risultato si allontana, i rapporti si ispessiscono, la memoria non si svuota, semmai si riempie, di qualcosa che non aveva mai dimenticato né trovato collocazione: le responsabilità ed i legami non si mettono a tacere, ma rivendicano il proprio spazio, non bastano cento buste di plastica nere per la spazzatura a racchiudere quello che della propria vita non si è digerito.
Determinate dinamiche, così come il peso di certi happy old years, non seguono nessuna regola, anzi spiazzano riproponendosi proprio quando si confida di averli seppelliti, come una foto che si pensava impossibile ed invece racchiude una famiglia incredibilmente normale e felice.
Arretra così certa sicurezza spavalda di chi sembra svuotarsi di supposte cose inutili senza colpo ferire, vacilla chi rinnega il passato con un’ apparente insensibilità, con un egoismo ed un distacco esteriore dietro cui è facile vedere camuffata l’insicurezza infelice di una ragazza in fase di mutamento.
E’ un’originale storia di formazione, Happy old years, in cui ogni sfumatura di colore vira sul bianco o sul nero, essenziale nei dialoghi, dalla struttura schematica, ma capace di incuriosire, ben sostenuta dagli interpreti colti in profondi primi piani e sbigottite sequenze d’ascolto, in cui si sfocano le rispettive certezze ed emergono nuove consapevolezze.
Toccante in alcuni punti di conflitto, musicalmente dosato con eleganza poetica, non privo di cenni ironici a costellare la cocciuta, indefessa, sfiancante battaglia di Jean, innaffiato di una crescente e naturale malinconia, come ogni passaggio all’età adulta che si rispetti, Happy old years non risparmia frecciatine alla star giapponese Marie Kondō, che al grido di buttare via tutto ciò che non rende felici, dopo avergli reso gentilmente grazie, ha fondato la propria fortuna, nonchè un metodo, seguito anche in occidente, che promette di riordinare la propria casa ed insieme la propria vita.
Di fatto lo spunto sulla riorganizzazione minimale degli ambienti è anche una concezione filosofica, di matrice buddista, che sa riconoscere un merito allo spazio vuoto, come habitat idealmente sano per la meditazione, la pulizia mentale e la fioritura di nuove idee.
Ma in Happy old years oltre all’idea di ristrutturare una casa c’è la maturazione di una giovane ragazza, più spesso sola, che ben accompagnata, una visione del tempo che fagocita nel modo sbagliato e desensibilizza i più giovani, un allarme sulla capacità non così sviluppata nelle nuove generazioni di parlare dei propri sentimenti, di affrontarli senza farsene schiacciare, di chiedere scusa e condividere realmente, pratica intraducibile per molti di loro, snaturata dal digitale e dal possesso di cose inutili; qui sta la vera contraddizione dell’epoca della testarda, addolorata, Jean: da un parte smaterializza i dati, dall’altra è bulimica del superfluo.