Campo lungo. Le campane suonano in lontananza, come in Mezzogiorno di Fuoco. Un uomo è ferito ad una spalla, ha appena ricevuto un colpo di pistola, cerca di imbracciare la sua arma.
L’uomo che lo ha sparato si mette davanti alla vittima, pronto per un duello, impugna già una pistola carica e fumante. I due sono divisi da una manciata di metri. Sembra un classico duello western:due cowboy uno fronte all’altro che cercano di rivaleggiarsi,ma non lo è.
Ghost Dog è un gangster-movie di fine anni Novanta, girato con sapiente mano da Jim Jarmusch, che decide di decostruire il genere, andando a puntare sull’ermetismo e una forte dose di citazionismo. Dal polar franceseal western, dalla musica Hip Hop alla filosofia giapponese. Questo è il film: un contenitore delle influenze che hanno permesso al regista americano di stendere quest’opera partendo da un foglio già abbozzato.
Ghost Dog trama
Un uomo, dal soprannome Ghost Dog (Forrest Whitaker), vive in una squallida terrazza accompagnato da libri e dai soli piccioni – le sue uniche compagnie. Come lavoro fa il killer per conto di un mafioso che, anni prima, gli aveva salvato la vita da un pestaggio – probabilmente razziale. Louie Bonacelli, per questo motivo, è diventato il suo master, la sua guida spirituale. Ghost Dog gli deve la vita ed è pronto per sacrificarsi; se fosse necessario. Si impegna quotidianamente ad obbedirgli ciecamente e ad accettare incarichi da lui, seguendo le rigide regole dello Hagakure.
Jarmusch, dopo il flop ottenuto con Dead Man, non cerca di ammiccare al pubblico tentando un’operazione commerciale – non l’ha mai fatto. Piuttosto continua a seguire la sua linea poetica, meditando circa le sue influenze e sprigionandole nelle sue idee. Generando uno stile unico e inconfondibile.
Ghost Dog tra estetica e citazioni: la visione del gangster-movie
Il postmodernismo fa dell’estetica della citazione uno dei suoi tratti distintivi. La tecnica del “riuso” diventa, per registi americani come i Fratelli Coen o Quentin Tarantino, una caratteristica fondamentale del loro modo di esprimersi e fare cinema.
Anche Jim Jarmusch cita e riformula soluzioni estetico-narrative, andando a modellare la sua visione del gangster-movie.
Jean-Pierre Melville è il padre del polar francese: una visione più europea del genere noir. Nel 1967, Melville, girò il suo decimo film “Le Samouraï” ritenuto da molti il suo capolavoro. Esso diventa il punto di riferimento per la stesura del film interpretato da Whitaker. In Le Samouraï, infatti, abbiamo Jeff Costello – un killer silenzioso che segue la “Via del samurai” – e sacrificherà la sua vita per una donna che gli ha salvato la vita.
Egli è anche solito a lavorare con il suo elegante cappello, l’impermeabile e la pistola – impugnata tramite i suoi guanti bianchi.
La sua visione del mondo, la sua estetica e la sua etica ricordano infatti quella di Ghost Dog. Ma Jarmusch non vuole soltanto citare Jeff Costello. L’opera di Melville fa della messinscena ermetica il suo punto focale, il film per lui diventa una lunga poesia – ed è proprio in quest’ultima che rincontriamo il ritmo scandito dal film di Jarmusch.
Una minuziosa attenzione ad ogni singolo dettaglio, parola, azione, designa un filo conduttore che porterà alla comprensione filologica della pellicola; come Ghost Dog fa quando si concede con la lettura dello Hagakure.
Quest’ultimo è un libro che nasce dai pensieri di Yamamoto Tsunetono, un samurai della metà del Seicento che, dopo una serie di vicissitudini, decide di ritirarsi in un eremo delle montagne – Ghost Dog, invece, si rifugerà nelle terrazze.
Nel Settecento, ormai nell’ultima fase della sua vita, racconta i suoi pensieri ad un altro samurai – pensieri che daranno forma allo Hagakure.
Le conversazioni avvenute tra i due samurai – tra allievo e maestro – contengono l’etica e la morale che il guerriero deve inseguire. Nei secoli questo codice prese il nome di Bushido – La via del guerriero. Questo titolo, tra l’altro, farà anche da sottotitolo al film, designando il carattere filosofico del protagonista.
Dalla passione con cui legge, apprende e si eleva spiritualmente, permette di capire anche con quale carica artistica riesce a svolgere il proprio lavoro da killer. Inoltre, viene tracciato un fondamentale sottotesto circa l’importanza della cultura, dell’arte; il tutto approfondito tramite la bambina Pearline – l’unica amica del nostro protagonista.
Le sequenze d’azione, tipiche del gangster, qui non sono frenetiche, rimangono scolpite nello spazio d’azione; sono rallentate. Esse diventano dei movimenti studiati al millimetro: un connubio perfetto tra i movimenti artistici-poetici dei samurai giapponesi con le gesta glaciali e calcolatrici tipici del killer.
Avendo già girato il suo western quattro anni prima, anche qui la poetica e gli archetipi tipici del genere non possono mancare. Il nome della città non viene mai menzionata nel corso del film. Jarmusch, non indicandone il nome, vuol riferirsi ad una platea generica, quella americana. Un luogo in stato di anomia: deficienza della legge e carenza dei poteri dello Stato, e non è un caso che il western sia il sottogenere sottinteso della pellicola. Tramite viali che ricordano quelli dei duelli tra i cowboy, sparatorie tra bande criminali e assenza totale della legge – tranne quella del più forte – Jarmusch riesce a scolpire un ambiente ideale per l’azione violenta dei personaggi.
Ed è qui che si conclude il film. La città sembra essere diventata un luogo per persone feroci, non c’è spazio per un’umanità, forse. Chissà se Pearline abbia imparato la lezione da Ghost Dog.
“È bene che il samurai, anche quando è sul punto di essere decapitato, conservi l’abilità di compiere un ulteriore azione, senza incertezze. Se saprà tramutarsi in un fantasma vendicatore, e mostrare grande determinazione benché privato della testa, egli non morirà.”