Vincitore dell’Orso d’Oro alla Berlinale 2024, “Dahomey” è un documentario diretto da Mati Diop distribuito nelle sale da Lucky Red e Mubi. Già regista del bellissimo “Atlantique“, che fu Grand Prix della Giuria a Cannes 2019, con “Dahomey”, Mati Diop torna ad esplorare un’altra storia del suo paese. Ma lo fa con il fascino e la suggestione del cinema del reale. La sua esplorazione su un evento realmente avvenuto a pochissimi anni di distanza nel presente contemporaneo, non fa che amplificare il fascino dell’operazione stessa.
Ed è un momento storico in cui il mondo intero è ancora alle prese con la pandemia di Covid 19 (novembre 2021), e sono presenti anche le mascherine chirurgiche in diverse inquadrature. Quello che è importante è il sottolineare della regista di quello che è un evento assolutamente unico a livello storico artistico: ovvero la restituzione di di 26 tesori reali del Dahomey al Benin. Questo non fa che confermare l’atto d’accusa all’antico processo di colonizzazione e in un certo senso di depredamento di tutto quello che ha rappresentato la storia dell’Africa a livello culturale.
Un’occasione per riflettere sulla decolonizzazione in “Dahomey”
Durante l’invasione del 1892, le truppe francesi portarono via migliaia di oggetti culturali dal Dahomey. Questi oggetti, considerati tesori del regno, vennero esposti nei musei europei, come il Musée du Quai Branly a Parigi. Nel novembre 2021, dopo decenni di richieste da parte dei paesi africani, la Francia ha restituito 26 tesori reali al Benin, tra cui il trono del re Behanzin. Questo gesto rappresenta un passo simbolico verso la riparazione delle ingiustizie coloniali e ha aperto un dibattito globale sul futuro dei manufatti africani presenti nei musei occidentali.
La restituzione dei tesori del Dahomey non è solo un evento storico, ma anche un’occasione per riflettere su temi come la decolonizzazione, la riparazione storica e il diritto dei popoli di riappropriarsi del loro patrimonio culturale. Per molti, questo è solo l’inizio di un processo più ampio per affrontare il passato coloniale e ristabilire un equilibrio culturale tra Nord e Sud del mondo. La domanda che Mati Diop fa al pubblico è come si possa conciliare il rispetto della memoria tra passato e presente in una matrice identitaria.
Un approccio quasi “fantasy” che mescola reale con immaginario
Lo stesso documentario è stato elaborato con un approccio quasi fantasy che va a mescolare il reale con l’immaginario. Perchè la restituzione viene rappresentata non solo da un punto di vista fisico e tecnico, ma anche da un altro metaforico. E per rappresentare come atto concreto questa soluzione visiva, la Diop sceglie di rappresentare il tutto dagli studenti dell’Università di Abomey-Calavi. E’ affidato a loro il compito di chiedersi il significato simbolico del ritorno in questa restituzione.
Oltre ad andare di pari passo con questa soluzione narrativa, la Diop sceglie un registro estetico visivo non da poco, perchè le immagini risultano uniche e straordinarie nella loro bellezza. Non si può cancellare il passato di quello che è stato il colonialismo, ma si può scegliere un modo diverso a cui guardare nel futuro. Forse è così che il mondo occidentale e il continente africano possono incontrarsi e tendersi la mano per cercare di trovare una nuova sinergia.
Cosa differenzia sostanzialmente “Dahomey” da “Atlantique”
Il lavoro precedente di Mati Diop, “Atlantique”, esplorava l’immigrazione clandestina, le disparità sociali, il sacrificio e il dolore delle partenze forzate, intrecciando elementi di racconto gotico e sovrannaturale, intrecciando il realismo con la presenza di spiriti e forze ultraterrene. “Dahomey” invece pone il discorso sulla memoria storica, della decolonizzazione e delle identità culturali post-coloniali, aprendo un dialogo tra il passato e il presente. La sua riflessione è su cosa significhi reintegrare un’eredità culturale in un contesto che ha dovuto imparare a vivere senza di essa.
Nonostante gli elementi sovrannaturali, il film si muove all’interno di un dramma romantico e sociale. La narrazione segue un intreccio lineare, pur con digressioni emotive legate agli spiriti e alla dimensione spirituale. In “Dahomey” la regista ha cercato una libertà creativa maggiore rispetto a “Atlantique”, rompendo con i canoni di narrazione tradizionali per creare un “documentario fantasy” che alterna momenti di riflessione politica, visioni poetiche e rappresentazioni storiche. Il registro è più ibrido, che unisce documentario e fantasia, con una struttura narrativa più frammentaria e sperimentale.
“Atlantique” riesce a ricreare una connessione umana basata sul dramma personale. Invita lo spettatore a riflettere sull’immigrazione e sulle disuguaglianze globali. La regia di Diop è qui attenta ai volti, ai dettagli quotidiani e al paesaggio urbano di Dakar, con un forte legame con il realismo. “Dahomey” propone un dibattito intellettuale e politico sul colonialismo e la sua eredità, utilizzando il cinema come strumento di consapevolezza e dialogo culturale.
Proprio per questo punta a un rigore estetico e a una rappresentazione visiva che sia il più possibile “artistica”. Ogni fotogramma sembra concepito come se fosse un’opera d’arte, con una cura particolare per la composizione e la simbologia. Si ha una maggiore sperimentazione visiva, mescolando sequenze evocative, che richiamano il cinema d’arte, a scene prettamente documentaristiche. Entrambe le pellicole rappresentano due tappe distinte ma complementari del percorso artistico di Mati Diop: se il primo è un dramma sociale con un tocco sovrannaturale, il secondo si manifesta politicamente come un’opera d’arte che ridefinisce i confini tra cinema e realtà. “Dahomey” è nella cinquina dei finalisti candidati al Premio Lux dell’Unione Europea.