Justin Kurzel approda a Venezia con un monito per gli anni a venire dal titolo bieco e sinistro, The Order (qui, la conferenza stampa). Un thriller-poliziesco d’azione cupo e spietato, ispirato a una storia realmente accaduta, che mette gli spettatori del Lido di fronte a un’ovvietà che non si fa mai male a rimarcare: il passato, a volte, non è poi così “passato”. Kurzel riesce nel veicolare una serie di riflessioni di cui si sente il bisogno, specialmente negli ultimi tempi.
The Order porta così sul grande schermo una pagina oscura della recente storia statunitense, fatta di contraddizioni, ingiustizie e inaccettabili assurdità che ancora oggi trovano teatro in tutto il mondo. Il regista australiano concorre a questa edizione del Festival di Venezia, mettendo a nudo le proprie paure, che dovrebbero essere quelle di tutti noi. Quelle per l’omertà, per la negazione, per l’oblio, per l’odio. Kurzel si serve della spettacolarizzazione cinematografica, consapevole che il tema trattato non può che arricchire la dicotomia bene-male di significati ulteriori, siano essi politico-sociali o etico-morali.
The Order: trama
1983. Una serie di rapine a banche e mezzi blindati, operazioni di contraffazione e sparizioni scuotono la tranquillità di una cittadina dell’Idaho, Coeur d’Alene, e dei suoi dintorni. L’agente dell’FBI Terry Husk (Jude Law), affiancato dal poliziotto Jamie Bowen (Tye Sheridan), scoprirà presto che gli atti criminali sono solo parte di un grande piano terroristico, ordito da un’organizzazione neonazista capeggiata da Robert Jay Mathews (Nicholas Hoult).
Un’inquietante trasfigurazione del populismo contemporaneo
The Order non è il primo film a ruotare attorno alla figura di “Bob” Mathews. Anche Oliver Stone nel 1988, per il suo film Talk Radio, scelse di ispirarsi all’omicidio di Alan Berg, commissionato proprio dal suprematista in questione. Ma se nella pellicola di Stone la figura del cronista radiofonico, a cui venne dato il nome di Barry Champlain, interpretato da Eric Bogosian, è protagonista, nella nuova opera di Kurzel, dove la prospettiva è quasi ribaltata, la sua centralità viene perduta. D’altronde anche i soggetti da cui prendono forma i due film sono differenti. The Order, tratto da The Silent Brotherhood di Kevin Flynn e Gary Gerhardt, ha come obiettivo primario lo smascheramento della violenza collettiva. I riflettori vengono puntati sulla pericolosità dell’ideologia che potenzialmente può evolvere in pratica brutale. Kurzel perciò trasfigura il malsano mito del populista contemporaneo nella figura di “Bob” Mathews.
Lui è il sollecitatore delle masse, è l’ipocrita che professa valori che lui stesso è incapace di mettere in pratica, lui è il represso-sconfitto che ha bisogno di un capro espiatorio da incolpare, lui è il narciso-egoista che, pur accorgendosi di ciò che già possiede, vuole sempre di più. Le “pecore smarrite” che seduce con le sue “magiche filastrocche” sono i disperati. Gente senza lavoro, che vive in situazioni precarie, che non sa più come andare avanti.
Lo stesso collocamento temporale di quanto narrato in The Order appare finemente azzeccato, procedendo secondo la prospettiva adottata fino a questo momento. Quanto professato da Bob Mathews è una riproposizione di un’ideologia, concretizzatasi, se pur in modo diverso, decenni prima e l’antecedente di reiterazioni giunte fino ai giorni nostri. Kurzel evidenzia così la ciclicità del tempo e, a suo modo, ci mette in guardia sulla costante eventualità di una tragica fioritura di qualsivoglia forma di dispotismo populista.
Due grandi personaggi a confronto
Justin Kurzel architetta con sapienza il conflitto tra bene e male, armandosi di un cast capace di valorizzarne gli intenti. In un angolo del “ring”, Jude Law. Con il physique du role perfetto per vestire i panni dell’agente dell’FBI Terry Husk. L’attore regala una performance catalizzante, incantando non solo i fan al tappeto rosso, ma anche quelli in sala. A prestare il volto all’antagonista, il suprematista bianco Robert Jay Mathews, è invece un eccelso Nicholas Hoult. È la scrittura dei loro personaggi, unita alle doti dei due interpreti, che emerge all’interno di un film in cui anche i volti secondari sono ben concepiti. Husk e Bob sono due opposti destinati a sfiorarsi nella rappresentazione del fallimento del sogno americano.
Entrambi perdono tutto. L’agente Husk però ne è consapevole, vuole entrare a patti con il proprio passato. Ripudia la violenza che da più di vent’anni ha contaminato la sua mente e il suo corpo. Arriva in più occasioni a lavarsi le mani, con l’acqua del fiume, perfino con la terra e la polvere (in una scena straziante). Le mani che Husk cerca di purificare, Bob tenta di sporcarle. Le sue dita accompagnano quelle piccole e innocenti del figlio nella pressione del grilletto di un fucile, sono assetate di armi e di sangue. Ed è proprio di fronte al fallimento dell’ideale del self-made man americano o al suo non raggiungimento, che si articola la visione che Kurzel ci regala del bene e del male. Se Husk, nonostante la durezza, cerca la propria redenzione, Bob, nonostante le maniere dolci, cerca la distruzione più totale che non risparmia nemmeno la propria persona.
“I diari di Turner” fanno tremare la Settima Arte
A distanza di pochi mesi dall’uscita di Civil War di Alex Garland, The Order è il secondo film che in poco tempo confessa di aver tratto in parte ispirazione dall’assalto a Capitol Hill del 6 gennaio 2021. A esplicitarlo sono le vignette che compaiono sul grande schermo poco prima dei titoli di coda. Vignette che si soffermano anche su I diari di Turner, elemento chiave di congiunzione tra quanto perpetuato tre anni fa dai seguaci di Trump e la vicenda di Robert Jay Mathews raccontata in The Order. Un libercolo che nel corso degli ultimi quattro decenni ha avuto una notevole impatto sulla cultura neonazista suprematista bianca, ponendosi come una delle fondamenta teoriche dietro una serie di atti terroristici.
Formalmente, un romanzo di fantascienza, scritto da William Luther Pierce, con lo pseudonimo di Andrew Macdonald, ma sostanzialmente un disgustoso amalgama di razzismo e complottismo, uscito a puntate tra il 1975 e il 1978 sulla rivista Attack!, organo stampa della formazione politica di ultradestra National Alliance, fondata dallo stesso Pierce. È seguendo quanto descritto in quest’opera che prendono forma le efferatezze che si vedono nel film. Un vero e proprio manuale d’istruzioni per il trionfo dei suprematisti bianchi. Non da ultimo la volontà finale di rimediare alla presenza di ebrei e “negri”, culminante nel cosiddetto “giorno della corda” in cui non solo la razza ariana trionferebbe, ma tutti i “traditori” sarebbero impiccati in pubblica piazza.
Attraverso stratagemmi di genere e omaggi cinefili, la profondità di The Order può arrivare a chiunque
The Order apre a una serie di letture e interpretazioni sottotestuali. Alcune sono più evidenti ed esplicite, altre opinabili e contorte. Ciononostante l’ultimo film di Justin Kurzel, co-sceneggiato con Zach Baylin, strumentalizza sapientemente ingredienti, provenienti da diversi generi cinematografici, al fine di una visione più accattivante. Momenti concitati, tipici degli action movies, tra cui sparatorie e inseguimenti, si alternano a scene giocate sulla tensione specifica dei thriller e a escamotage narrativi presi in prestito dai caper movies, come i preparativi per le operazioni e le fasi di reclutamento. Il tutto avvolto da una fotografia notevole, che spicca per una splendida e pittoresca sequenza quasi interamente ambientata in una casa in fiamme.
Insomma, Kurzel sa che essere profondi non necessariamente implica essere ieratici, solenni e flemmatici. Anzi, a volte si può essere più efficaci, optando per tutt’altro. Basta farlo con stile e furbizia, strizzando magari l’occhio ai cinefili con qualche omaggio a Il cacciatore (1978) di Cimino (1978) e a Il sospetto (2012) di Vinterberg. Perciò, The Order, a metà di questa edizione del Festival del Cinema, è uno dei film più convincenti, che, più di altri, per la sua estetica e per la sua narrazione avvincente, può indurre il grande pubblico a meditare sul passato con un occhio sempre puntato al presente.