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Steel Rain – sognando la Corea unita

Fare cinema vuol dire realizzare un mondo diverso. Pensarlo, saperlo costruire fotogramma dopo fotogramma, e infine lasciare che questo prenda vita. Magari uno di questi mondi potrebbe anche prendere il sopravvento e sostuiretuire quello reale. Deve aver pensato questo Yang Woo-suk. Il regista coreano ha edificato il suo “Steel Rain” usando paura e speranza, come mattoni. Li ha raccolti e saldati in un grande epico racconto per parlarci di un popolo che si regge funambolico su di un filo di tensione. Perché il 38° parallelo divide lo stesso popolo, e tiene viva l’ammissibilità di una nuova guerra, da troppo tempo.

“Steel Rain” (강철비) è un action d’acciaio. Come la pioggia del titolo. La tensione da spy movie e l’emozione tipica del buddy movie si alternano in un film dal risultato solido, e dal sapore maturo. Quello che solitamente hanno le missioni compiute.

Il desiderio del regista Yang Woo-suk è chiaro: confezionare un film d’azione molto tosto, servirsi dei luoghi comuni convenzionalmente attribuiti a Nord e Sud Corea senza perdere tempo a smussare alcun ché, e infine far comprendere che le affinità possono più delle divergenze. Operazione piuttosto comune direte voi. Difficile però realizzarne un film che possa nonostante l’intento didascalico, coinvolgere, intrattenere e richiamare alla riflessione.

Steel Rain

“Steel Rain” è un ottimo esempio di “cinema della riunificazione”. Quel cinema che è finito per essere un fortunato sottogenere della cinematografia sudcoreana. Un filone che vanta meraviglie come “JSA” di Park Chan-wook, magnificato anche da Kim Ki-duk con il “Prigioniero coreano”. Una tradizione narrativa giunta recentemente perfino al k-drama. “Crash Landing on You”, la più romantica e ostacolata love story, è diventato il più visto della storia di un’emittente via cavo.

“Steel Rain” esce nelle sale coreane nel 2017. Proprio nei giorni in cui Kim Jong-un, il dittatore nordcoreano, dichiarò lo stop ai test missilistici. Il tutto seguito dal plauso di Trump. Erano stati giorni nervosi. Si temeva si fosse accesa la miccia che avrebbe potuto far deflagrare una guerra nucleare. Ora la minaccia sembrava essere stata messa a tacere. Le paure di cui “Steel Rain” è imbevuto sarebbero potute sembrare fuori moda. Fuori tempo. Eppure il film conquista il pubblico. Perché la paura, anche quando messa sotto chiave, non svanisce.

L’uscita su Netflix non era stata nemmeno prevista, ma dato l’enorme successo avuto in patria fu deciso di proporre il film ad un pubblico più ampio.

Steel Rain

Pyongyang. Corea del Nord. L’agente Eom Cheol-woo (Jung Woo-sung – il buono di “The Good, the Bad and the Weird”):ha ricevuto l’ordine di sventare un possibile golpe. Ma la situazione si complica drasticamente: durante la sua missione si ritrova nel bel mezzo di un attacco pianificato ai danni del Leader Supremo. Il Numero Uno nordcoreano rimane gravemente ferito. L’implacabile ufficiale in divisa dovrà fuggire in Corea del Sud per tentare di salvargli la vita. Oltrepassato il confine dovrà fare di tutto per tenere in vita l’uomo più importante del suo paese e scongiurare lo scoppio della guerra fra Nord e Sud, a cui guardano con interesse molte potenze internazionali.

A Seoul troverà un inaspettato alleato. Un uomo molto diverso da lui, per aspetto, attitudini e cultura. Ma con il suo stesso nome. Kwak Cheol-woo (Kwak Do-won – “Mother” di Bong Joon-ho e più recentemente in “The Wailing”). Anche lui un agente dei servizi segreti. Ma per la Corea del Sud.

L’affascinamene ufficiale dal cuore di ghiaccio, trattenuto nella sua divisa fuori moda. Solitario e isolato dal mondo, dovrà scontrarsi con una realtà abituata a scorrere ad una velocità a lui sconosciuta. Imparerà ad apprezzare l’ironia sempre fuori luogo dell’uomo decisamente meno atletico che porta il suo nome. Un uomo banalmente accessoriato da un elegante completo con cravatta. Figlio del consumismo del Sud, che mangia cibo americano, ma non ha smesso di sperare in una Corea unita.

“Steel Rain” si agita tra spettacolari scontri corpo a corpo, cospirazioni e riunioni segrete discusse nelle stanze dei bottoni. Si confessa un esercizio del potere paranoico, drammatico, sulla soglia del ridicolo. Un potere che nutre lo spasmodico bisogno di non essere mai messo in discussione. Un potere addestrato a rievocare ogni ostilità del passato, agli occhi del quale l’interesse economico prevarrà su ogni altra valutazione.

Steel Rain

Già in “The Attorney” il resgista Yang lasciava emergere una chiara visione liberale e democratica sulla questione di Corea. In “Steel rain” rimarca il suo punto di vista ponendo sulla scrivania del neo-presidente sud coreano un libro di Willy Brandt. Tanto per mettere in chiaro dove ricercare le ragioni e dove i torti.

L’intento educativo, sia dal punto di vista storico che da quello politico, è scalfito in ogni scena di “Steel Rain”. Eppure va riconosciuto a Yang la grande capacità di aver ricostruito meticolosamente un quadro fantapolitico drammaticamente credibile. Ed è grazie a questa consapevolezza, comprendendo quanto ciò che si sta vedendo potrebbe realmente verificarsi, che lo sgomento e l’inquietudine si fanno largo nel nostro animo di spettatori occidentali. Spettatori lontani, certo, ma mai quanto vorremmo. Vi sono scene strazianti, come quella della carneficina di cui sono vittime le cheerleader a Pyongyang. Vi sono scene insopportabili, come quelle riguardi le esplosioni nucleari.

“Steel Rain” è una storia animata da spie, intrisa dalle atmosfere di guerra, abitata dalle congiure. Ciò che non ci aspetteremmo di trovare in una narrazione così energica sono gli stereotipi rigidi e grotteschi di cui sono vittima i personaggi. Nordcoreani malvestiti e poco istruiti catapultati a sud, dove si mangiano hamburger, dove si è più astuti e molto più eleganti.

Sembrerebbe quasi inevitabile che la riconciliazione fra le due Coree sia discussa  dai due Cheol-woo di opposta provenienza davanti a noodles, canticchiando brani K-Pop e lasciandosi sfuggire inavvertitamente qualche lacrima. Sebbene questo espediente narrativo possa apparire poco originale per chi conosce la cinematografia coreana, sempre pronta a giocare sulle sfumature ironiche anche all’interno dei racconti più amari, è proprio in queste scene che si trova l’essenza del film.

Steel Rain

Lo sguardo rigido e distaccato del militare del Nord di Jung Woo-sung si rispecchia alla  perfezione nei sorrisi un po’ goffi, un po’ sagaci, del diplomatico del Sud, sempre pronto a vedere le cose da più angolazioni. L’attore Kwak Do-won, da prova di un’altra grande performance attoriale, e dopo il ruolo meravigliosamente interpretato nel magnetico “The Wailing” – sembra sempre più lanciato nello star system cinematografico coreano.

Yang Woo-seok fa tutto molto bene, ma probabilmente un tempo di narrazione più breve e una storia più compatta avrebbero giovato a raggiungere l’obiettivo in modo più deciso. A rendere frammentato lo svolgersi della narrazione di “Steel Rain” è l’impressione che si proceda per episodi con la messa a fuoco variabile. Sono molti gli elementi che si giocano un ruolo di prim’ordine in questa storia, e capita che non sia immediatamente identificabile il filone narrativo principale. Non sorprende scoprire che “Steel Rain” sia basato su un toon web ideato dal regista stesso.

Merita una nota di onorevole merito il fatto che “Steel Rain” non sfrutti alcun sensazionalismo emotivo. L’evocazione ad una Corea unita è un’aspirazione mossa da un desiderio reale, sentito. Nulla di ciò che è agognato sullo schermo viene citato al fine di provocare facili coinvolgimenti sentimentali. Il cuore dello spettatore si fa pesante senza che siano sollecitati inutili singhiozzi. Il regista Yang percorre una strada moderata, sceglie di non rincorrere le lacrime dello spettatore, preferendo richiamare alla riflessione. Non può nonostante questo mancare l’umorismo del cinema orientale, quello fuori luogo e sopra le righe, che in “Steel Rain” si concentra su una lieve ironia sulla spietata dittatura vista da uno sguardo tipicamente “meridionale” e democratico.

“Steel Rain” è un blockbuster imperfetto, ma entusiasmante. Yang Woo-seok concentra nelle sue mani un potenziale esplosivo e decide di far detonare l’intero potenziale narrativo. Ci sono passaggi dal non troppo chiaro procedere politico, e alcune scene di inaspettata complicità fra personaggi opposti, che non vi appariranno così inattesa. Ma qui la riunificazione non è solo sperata, o evocata. Si realizza. Il sogno coreano di un paese unito diviene realtà. È questo a rendere il film audace e coraggioso. Il mettere in scena quanto il paese reale sia molto più vicino alla riunificazione di quanto il mondo politico sia pronto ad ammettere.

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

"Steel Rain" è un action solido come l'acciaio. Nonostante i numerosi luoghi comuni presenti nella narrazione e l'intento fortemente didascalico la pellicola sa coinvolgere e richiamare alla riflessione. Un buon esempio di "cinema della riunificazione", oramai un vero sottogenere della cinematografia sudcoreana.
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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