L’ingegno tagliente di Yorgos Lanthimos non perde un grammo della sua potenza espressiva nemmeno quando le si accordano solo poco più di dieci minuti per squarciare il quotidiano torpore. Eleganza glaciale e crudeltà raggelante si avvinghiano in “Nimic”, l’ultimo cortometraggio del regista greco presente nel succoso catalogo di MUBI, forse la migliore piattaforma di buon vero cinema online.
Presentato a Locarno lo scorso anno e poi al Ravenna Nightmare Film Festival 2020, il corto “Nimic” è un fulmineo transito di rasoio sulle nostre distratte vene bluastre. La sua narrazione compressa falcia via consuetudini e identità lasciando esanimi e interdetti.
Yorgos Lanthimos ne aveva già dato prova nel suo “Necktie” (2013 – progetto Venezia 70 Future Reloaded): 90 secondi, una sontuosa foresta, un duello armato. Un timido sole si fa largo fra gli alberi e due ragazzine in tenuta scolastica sono pronte a imprimere la propria forza sul grilletto. E la morte sopraggiunge, dimenticando fra le labbra dello sconfitto le parole di Baudelaire. Un minuto e mezzo basta per sconvolgere. E se a stringere la macchina da presa sono le mani di Lanthimos è facile intuire cosa possa realizzare in uno striminzito angosciante quarto d’ora.
Il regista greco rinnova la sua solida collaborazione con lo sceneggiatore Efthymis Filippou (di cui si era sentita la mancanza ne “La Favorita”) e si affida al volto indolente di Matt Dillon, sempre più comodo nei panni del cinema d’autore, dopo l’esperienza con Lars von Trier sul set de “La casa di Jack”. Un’ottima formazione per tornare a picchiare durissimo sulla sua incudine preferita: la famiglia. Il caldo focolare quotidiano che nei suoi film è ostile e alienante costrizione che impone ruoli e identità inospitali.
Il nostro quotidiano, quella atrofizzata routine che inermi ribadiamo ogni giorno, ci appartiene davvero? Siamo stati noi a congegnarla o è lei ad averci composto a suo piacimento? Custodiamo ancora un’identità nostra o i gesti che ripetiamo sono tutto ciò che siamo?
Chi ha ancora dinnanzi agli occhi la destabilizzante società di “The Lobster”, in cui l’essere in coppia è spietata espressione dell’obbligo di uniformarsi, ricorda con chiarezza quanto Lanthimos interpreti la famiglia come soffocante dovere sociale. Ma è in “Alps” (2011) che la sostituzione era stata oggetto di una sconcertante riflessione. In questo caso il subentrare nelle vite degli altri era frutto di un’operazione pianificata, pensata per chi desiderasse ottenere un surrogato per superare l’assenza di un famigliare defunto. “Nimic” affonda dunque le radici in tormentate elucubrazioni passate, trattenendo il linguaggio espressivo dotato di grandangoli esasperati, propri di una personale cifra stilistica fra le più affascianti del cinema recente. Il risultato sono 12 minuti raggelanti, intrisi di un’angoscia che si appiccica addosso.
Il mattino, l’uovo messo a bollire per 4’15’’ esatti, l’attesa spesa fissando come se si fosse già morti il pentolino. Colazione consumata in piedi, con la schiena addossata al muro, mentre il resto della famiglia siede al tavolo della cucina. Prove con l’orchestra d’archi, poi si affonda sul sedile di una metropolitana che procede dritta verso casa. L’uomo (Matt Dillon) sembra aver ripetuto quelle azioni centinaia di volte. Sul suo volto non vi è più alcuna traccia di emozione.
Non scopriamo nemmeno quale sia il suo nome, probabilmente nessuno ha tempo da perdere per richiamare la sua attenzione. L’uomo imita ogni giorno i gesti del giorno precedente, perdendo ad ogni ripetizione parte della sua individualità. L’uomo è forse già nulla (“nimic” in romeno).
Mentre fissa il vuoto di fronte a sé viene pervaso dal bisogno di domandare a qualcuno l’ora esatta. Incrocia lo sguardo di una donna (Daphne Patakia), destinata anch’essa a non rivelarci il suo nome. Con l’entrata in scena dei suoi enormi occhi sbarrati ha inizio un gioco infantile, assurdo, privo di immediato senso. «Excuse me. Do you have the time?», dice lui. «Excuse me. Do you have the time?», ribadisce lei.
Nessuna risposta, ma solo la replica della medesima domanda. L’annullamento nella ripetizione. Da questo momento la copia aderirà perfettamente al suo modello, annichilendo la sua identità e privando quella dell’uomo della sua originalità. La donna seguirà l’uomo fino a casa. Aprirà la porta girando nella toppa il medesimo mazzo di chiavi. Pronuncerà le stesse parole alla moglie e ai figli.
La copia aderisce così pedissequamente ai gesti reiterati del suo modello che nessuno dentro casa sa decretare chi sia davvero il legittimo proprietario di quel ruolo. Una volta rientrati in casa i loro movimenti si fanno sincronici: non è più possibile distinguere chi sia l’autentico e chi la riproduzione.
Il corpo viene espropriato del valore differenziale, e lo spettatore rimane attonito e incredulo nell’assistere ad una sostituzione che si verifica fra persone così diverse, addirittura di sesso opposto. Né la voce, né l’odore sembrano rimarcare un’identità che oramai è perduta. In “Nimic” se i corpi occupano lo stesso spazio, e si affrettano a compiere gli stessi gesti, è impossibile distinguerli.
Vedremo la donna affannarsi nello stringere un sudato archetto fra le mani dimenandolo su di un violentato violoncello. Eppure la sua totale incapacità di suonarlo non ha alcuna rilevanza. Ciò che conta è la sua abilità nell’abbandonarsi nel sistema circostante. La famiglia la applaude, e ora, dissolti i dubbi, la riconosce come legittima padrona di quell’identità im-personale.
L’uomo viaggia nuovamente in metropolitana, sedendo però sull’altro lato del vagone. Se qualcuno dovesse domandargli “Do you have the time”? dovrà tenersi pronto per acquisire una qualche altrui alienante quotidianità.
Saremmo davvero così facilmente sostituibili qualora dovessimo incrociare lo sguardo di qualcuno particolarmente abile nell’imitare i nostri gesti? E soprattutto, la nostra originalità è tutta lì, banalmente espressa nella reiterazione di segni così dannatamente insignificanti?
Non importa se il posto di un uomo adulto viene estirpato da una giovane donna, potrebbe non accorgersene nessuno. E cosa ancor più agghiacciante è la rassegnazione del cupo Matt Dillon: la routine lo ha così svuotato di senso da indurlo a tollerare lo scambio con incomprensibile rinuncia.
“Nimic” esprime a pieno il concetto di riproduzione. E l’assonanza con il termine inglese “mimic” (imitare) è troppo rilevante per non essere notata. Una quotidianità soffocante può spingerci fuori dai noi stessi fino ad annientarci, rendendoci un involucro vuoto pronto ad ospitare qualcun altro.
Grandangoli, panoramiche e lunghe carrellate laterali fanno di “Nimic” un prodotto in cui converge tutta l’autorialità di Lanthimos. Le interpretazioni dei due sovrapponibili personaggi sono perfette: l’imperturbabile Dillon nei panni del precario possessore di un qualche ruolo e Daphne Patakia nelle vesti del doppio. Occhi apertissimi, movimenti istintivi, che si fanno man mano più sicuri, meccanici.
Ognuno è sovrascrivibile, a tal punto da poter soprassedere sulle diversità evidenti. Così lo spazio si deforma in una sfericità non naturale in più occasioni durante la breve narrazione, insinuando il tema del tempo non lineare ma circolare. Se l’uso estremo del grandangolo da un lato favorisce l’estraniazione, dall’altro rimanda alla possibilità che questa distorta faccenda possa ripetersi, lasciando spazio ad eterne repliche.
“Nimic” in pochi minuti irrompe nell’indolenza contemporanea avanzando l’ipotesi angosciosa che un processo imitativo sia in attivo da parecchio tempo, recidendo identità svuotate della loro unicità, condannate alla reiterazione di meri compiti meccanici. Anche nei titoli di coda ogni parola si affretta ad appropriarsi di ciò che resta della parola che l’ha preceduta, spogliandole del loro esclusivo senso.
Lanthimos destruttura la realtà con una sceneggiatura che potrebbe progredire ciclicamente imitando se stessa indifferentemente dal volto dei suoi attori. Perché non è più il corpo a distinguerci, ma solo i ripetuti annoiati gesti.