Correva l’anno 1950 quando un giovane e talentuoso scrittore, Isaac Asimov, diede alle stampe Io, Robot. No, non si tratta di un libro, come accade di solito, e nemmeno di un singolo racconto. Si tratta, bensì, di una raccolta di storie, fondate sul principio delle Tre leggi della robotica, così affascinanti e razionali, eppure piene di umanissime contraddizioni.
Bisogna aspettare cinquantaquattro anni prima che Alex Proyas e la 20th Century Fox, decidano finalmente di proporre sul grande schermo una trasposizione di quelle storie meravigliose. In quel 2004, infatti, in un mondo molto più simile a quello che Asimov aveva immaginato, vide la luce Io, Robot.
Nel 2035 il mondo vive un periodo di completa automatizzazione. La robotica, da timido esperimento volto a semplificare alcuni aspetti della vita quotidiana, si è ormai trasformata nel principio fondante di un’intera società. Le automobili dispongono sempre più raramente di un controllo manuale. Pulizie, servizi e consegne sono sempre più spesso svolte dai robot. E quasi tutti gli uomini, ormai destinati ad un’esistenza fiacca e oziosa, sembrano accettare il nuovo ordine con cosciente passività.
Quasi tutti, abbiamo detto. Già, perché in giro per le strade, ogni tanto, se ne trova qualcuno che invece non è d’accordo per niente. Del Spooner, per esempio, un agente di polizia reduce da un trauma inizialmente oscuro. Eppure, nonostante il suo passato sia incerto, certissimo è il suo presente. Spooner odia i robot, visceralmente, senza possibilità d’appello. Confida nell’uomo, negli oggetti vecchio stile, manuali, il cui controllo non venga spartito con nessun altro.
Ma Spooner è un crociato che combatte da solo. Tutti lo trattano con affettuosa e talvolta ironica condiscendenza, ma in cuor loro conoscono la verità. Gli androidi sono ormai un elemento consolidato, impossibile da discutere. Meglio accettarlo, abituarsi e lasciar perdere. Un giorno, però, Spooner viene chiamato ad investigare sul suicidio del dottor Alfred Lanning, la mente dietro le invenzioni tecnologiche della U.S. Robotics.
Il dottore è precipitato dalla finestra di una stanza situata molto in alto. La finestra, però, è di vetro infrangibile. Spooner stesso non riesce a scalfirlo. E, come se non bastasse, in quella stanza Lanning era solo. O meglio, solo, assieme ai robot. La teoria dell’agente, però, non convince nessuno. Un robot non può ferire un essere umano. È scritto nelle tre leggi, quelle che formano la coscienza di ogni androide. Eppure, le leggi sono fatte per essere infrante.
Volgendo indietro lo sguardo, verso quel lontanissimo 2004, notiamo subito una differenza fondamentale rispetto all’epoca corrente. La teoria sponsorizzata dalla Marvel, basata sulla scrittura di saghe lunghissime e piene di dettagli, era ancora totalmente sconosciuta. Invece di trasporre una singola storia del ciclo di Asimov, o produrre un insieme di opere collegate, Proyas opta per un mix assortito di tutti i racconti, alla stregua di un tema più o meno comune.
Alcuni personaggi come la dottoressa Susan Calvin, nonostante alcune vistose modifiche, derivano dritti dall’opera madre. Molti altri particolari, invece, sono liberamente ispirati. Nonostante questa dicotomia, la pellicola sembrerà a tutti i profani dell’opera di Asimov un prodotto completamente autosufficiente.
La storia, nonostante qualche incertezza nella sceneggiatura, scorrerà liscia per tutto il tempo. Ad intrigare, è soprattutto un senso di costante angoscia che, soltanto intravisto nei minuti iniziali, crescerà progressivamente fino alla fine. Ciò è dovuto alla sempre più invadente presenza dei robot, oltre al mistero che si cela dietro la morte del dottor Lanning. Will Smith, inoltre, dona al suo Spooner un dna misto, un po’ riflessivo, un po’ Bad Boys.
La pellicola, più che sui temi filosofici propri di Asimov, posa quasi interamente su di lui, e sul suo rapporto contrastato con l’androide senziente Sonny. Molto meno interessante è invece la dottoressa Calvin, decisamente sottotono rispetto alla sua controparte letteraria. Inutile, ma inutile davvero, è invece il personaggio interpretato da Shia LeBeouf. Ma questa, perdonate l’asserzione, non è una novità.
Il mondo messo in scena da Io, Robot è un universo estremamente credibile. Plausibile e realistico fino alla paranoia. Molto intelligente, per esempio, la scelta di non trasfigurare ogni singolo aspetto della società, lasciando invece, sparsi qua e là, tanti piccoli rimandi all’epoca attuale. Una conversione totale sarebbe risultata eccessivamente posticcia. Allo stesso tempo, non tutta la progettazione è stata compiuta senza sbavature. Ne è un esempio la totale assenza di veicoli che non siano Audi. O la massiccia presenza di product placement, in alcuni casi davvero imbarazzante. La durata relativamente contenuta, almeno rispetto agli standard odierni, non ha consentito un ulteriore approfondimento dell’universo narrativo.
A fare da contraltare, abbiamo un utilizzo degli effetti speciali davvero magistrale. Inseguimenti spettacolari. Computer grafica. Scene dall’altissimo quoziente adrenalinico. Il tutto, supportato dal tocco sapiente e deciso della telecamera. Manca forse, in questo senso, una colonna sonora memorabile, che avrebbe reso alcune sequenze davvero iconiche.
Io, Robot è un prodotto furbo. Il suo mescolare assieme vari elementi non sempre ben incastonati tra loro, rende la pellicola forse priva di una vera e propria identità, ma mantiene intatta la sua capacità di coinvolgere ed intrattenere lo spettatore. Peccato per alcuni elementi trascurati o dati per scontato. Condensare tutta la mitologia di Asimov in un singolo film era una missione impossibile.
Eccettuati questi aspetti, l’opera resta una fonte di naturale divertimento, oltre a rappresentare un interessante spunto di riflessione riguardo il tema inesauribile della tecnologia. Il nostro augurio è che in futuro altri produttori decidano di investire sulla leggenda dell’immortale scrittore statunitense.