«Gli italiani si bevono qualunque cosa. Siamo la minchiata giusta al momento giusto». Può essere raccolto in questa frase il nuovo film di Antonio Albanese Cetto c’è, senzadubbiamente, nuovo capitolo della saga con protagonista Cetto La Qualunque, inaugurata con il fortunato Qualunquemente nel 2011 e proseguita con Tutto tutto, niente niente l’anno successivo. Decisamente meno incisivo rispetto al primo film, il nuovo progetto di Albanese cerca di staccarsi dalla critica alla sola politica e vuole tendere anche all’analisi, con la consueta ironia volgare di Cetto La Qualunque, anche della società contemporanea, dalla mania per internet e i social network dei giovanissimi fino al perbenismo e alla falsa moralità della gente comune. Tuttavia però, sebbene alcune gag siano veramente esilaranti, il lavoro nel complesso sembra alla lunga diventare monocorde e ripetitivo.
In Cetto c’è, senzadubbiamente, troviamo un protagonista ormai cambiato, dopo aver deciso di appendere il microfono dei comizi politici al chiodo. Stanco di un’Italia senza futuro, ormai vive da cinque anni in Germania insieme a una seconda moglie, Petra (Caterina Shulha) e la loro figlioletta, Gunhild, che Cetto chiama simpaticamente “Ciotola”. Gestisce qui una catena di locali e pub, ovviamente sotto falso nome, quello del figlio Melo, e con una spiccata noncuranza della legge. Accanto a lui, il fidato braccio destro Pino (Nicola Raganese), sempre pronto a una sparatoria o a un furto con scasso.
Una sera, di rientro da una cena con i suoceri neonazisti – musica di Wagner a tutto volume e un poco velato odio nei confronti degli stranieri – Cetto riceve una telefonata che lo informa che la sua anziana zia Annunziata è sul letto di morte: rientrato al paese, viene informato da quest’ultima delle sue vere origini: suo padre non era un rappresentante di detersivi come gli era stato sempre detto, ma il principe Buffo di Calabria (imparentato con i Borbone che governarono sul Regno della due Sicilie) e pertanto di sangue reale.
«La democrazia non può garantire niente, un re sì». Grazie alla spinta del conte Venanzio (Gianfelice Imparato), per Cetto inizia così una lunga ascesa verso il trono delle due Calabrie (guai a dire due Sicilie, «una già basta e avanza»), fatta di pranzi sontuosi, castelli ricolmi di sfarzi e qualunque altro carattere che si addice a un re. L’Italia ha bisogno di un cambiamento per rivedere i fasti del passato e questo può essere realizzato soltanto da un monarca assoluto. «Oramente assolutissimamente convinto», Cetto si dedica interamente al suo ruolo regale, senza mai dimenticare i lati distintivi del suo carattere e il motore primo che alimenta le sue giornate: “u pilu”.
Elemento cardine del personaggio La Qualunque, la passione per le belle donne in questo capitolo però passa quasi in secondo piano, capace di ritagliarsi solo una decina di minuti in tutto il film (91’ la durata complessiva) facendo così perdere al protagonista una grossa fetta del suo ormai celebre umorismo. C’è spazio anche per una critica all’attuale formazione di governo: l’inglese stentato di Pino, il quale sa dire poco più che “My name is”, gli garantisce da Sua Maestà il posto da ministro degli Esteri, mentre un geometra poco capace ottiene senza troppi indugi il ruolo di ministro delle Infrastrutture.
La hit finale Io sono il Re, cantata assieme al rapper ex Club Dogo Gué Pequeno, apre le porte anche a un nuovo capitolo («mi riprenderò il Paese che amo, il popolo italiano ha scelto me»), ma fa calare il sipario su un film a tratti divertente, ma per buona parte forse povero e privo di quel carattere che invece definiva il primo Qualunquemente. In conclusione, Cetto c’è, senzadubbiamente è una commedia leggera costruita sull’assurdo e capace di strappare un sorriso a coloro che sono scontenti della realtà quotidiana, ma che lascia l’amaro in bocca per un progetto che aveva un potenziale decisamente più alto.
Voto Autore: [usr 2,5]