HomeRecensioniMan in the Dark: recensione del film di Fede Álvarez

Man in the Dark: recensione del film di Fede Álvarez

Era il 2016 e nei cinema italiani arrivava Man in the Dark (in originale Don’t Breathe) di Fede Álvarez. Un thriller a tinte horror che a distanza di cinque anni intrattiene e diverte come fosse la prima volta.

Un soggetto originale di derivazione classica

Fede Álvarez, dopo il remake de La Casa, torna sul grande schermo sorprendendo pubblico e critica con Man in the Dark, un film originale e dal ritmo incalzante che ha generato un sequel omonimo ora nelle sale, L’uomo nel buio-Man in the Dark. Di derivazione classica, trae ispirazione dal filone home invasion, ma se ne discosta appena in tempo trovando una sua personale dimensione. Il risultato è un film in cui il confine tra buoni e cattivi è sottile, tanto da disorientare lo spettatore, incapace di decidere per chi parteggiare. L’unica cosa da fare, a questo punto, è godersi lo spettacolo.

Man in the Dark: la trama

Ambientato a Detroit, il film segue le vicende di Money, Rocky e il loro amico Alex. Rocky ha alle spalle una famiglia disastrata e vuole lasciare la città per trasferirsi in California, portando con sé la sorellina più piccola. Il suo ragazzo Money e l’amico Alex, segretamente innamorato di lei, vogliono aiutarla, ma per partire servono tanti soldi. Per procurarli, ricorrono ad metodo non propriamente ortodosso: rubano oggetti di valore nelle case dei ricchi per poi rivenderli e intascarsi i contanti. Il colpo grosso (e l’ultimo secondo Money) consiste nell’introdursi a casa di un ex veterano di guerra cieco per intascarsi una grossa somma di denaro che il vecchio ha ricevuto come risarcimento dopo la morte della figlia. Dopo un’iniziale riluttanza di Alex, i ragazzi preparano un piano. Scopriranno, però, che l’uomo non è così innocuo come sembra e finiranno in una trappola mortale dentro cui dovranno sopravvivere.

Man in the Dark

Man in the Dark: la recensione

Álvarez sembra rinsavito dopo l’inutile remake del cult di Raimi. Il regista messicano stupisce, dimostrando maturità e consapevolezza del mestiere. Sì, perché il pericolo del virtuosismo fine a se stesso era dietro l’angolo, un rischio fortunatamente aggirato con saggezza. La regia è abile, furba e anticipa in modo intelligente e subdolo specifiche inquadrature di cui riconosciamo l’importanza in un secondo momento. Man in the Dark è un felice matrimonio tra regia e sceneggiatura e l’elemento principale grazie al quale può essere definito il punto più alto della sua carriera, divisa tra cortometraggi e lungometraggi. Scritto con il suo fidato sceneggiatore Rodo Sayagues, il film da un’ apparente storia di dramma e riscatto sociale si trasforma in un home invasion ad alta tensione.

Man in the Dark

I tre ragazzi sono in fuga da un’esistenza infelice e, nonostante si muovano su un terreno privo di etica e moralità, il loro agire è comprensibile. Lo switch narrativo che li riguarda alimenta la trama e trascina il film verso un finale risolutivo a metà, aperto a un sequel (appunto L’uomo nel buio-Man in the Dark). Se, in un primo momento, sono da considerare i “cattivi” della storia per via delle loro riprovevoli azioni, arriviamo a provare una certa compassione nel vederli in trappola come topolini. L’uomo ha più skill (per usare il gergo videoludico) di quello che il suo handicap faceva presupporre e un terribile segreto che protegge gelosamente. E’ giusto chiamarlo villain? Nì, perché anche lui ha subìto un torto, anzi più di uno. Nessuno è un villain come lo intendiamo nell’immaginario collettivo, così come nessuno può definirsi vittima. Man in the Dark è un film controverso e la scrittura dei personaggi è più complessa e stratificata di quel che sembra.

Man in the Dark

Una performance da manuale

I giovani attori protagonisti sono volti noti delle serie tv, in particolare Dylan Minnette, il Clay Jensen di Thirteen Reasons Why. Nulla da dire sul loro talento, reggono la scena senza problemi, tuttavia a fargli ombra arriva Stephen Lang con la sua performance da manuale. Attore poliedrico, attivo in campo cinematografico, televisivo e teatrale, è stato co-direttore artistico dell’Actor’s Studio di New York dal 2004 al 2006. Se titoli e filmografia non dovessero bastare, l’interpretazione data in Man in the Dark parla da sé. Una prova fisica di grande intensità che dimostra l’eccezionale capacità di gestione che Lang ha del proprio corpo, senza per questo tralasciare la componente emotiva.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Man in the Dark, un thriller originale e ben scritto dove il talento registico di Fede Álvarez emerge in tutta la sua creatività, con un ottimo cast capeggiato da Stephen Lang. Una storia controversa dove il Bene e il Male sono i due estremi e in mezzo vi sono l'etica e la moralità come unità di misura. Un film teso dal ritmo incalzante che ad ogni visione risulta ancora più divertente della prima volta.
Tiziana Panettieri
Tiziana Panettieri
E’ un amore di lunga data quello tra me e il cinema, cominciato con cult come Halloween, IT e L’Esorcista e alimentato negli anni con il meglio dell’horror e del cinema di genere. Ammetto, però, d’aver subìto il fascino del cinema asiatico, mediorientale e sudamericano. Sono onnivora, non mi precludo nulla senza aver prima provato.

ULTIMI ARTICOLI

Man in the Dark, un thriller originale e ben scritto dove il talento registico di Fede Álvarez emerge in tutta la sua creatività, con un ottimo cast capeggiato da Stephen Lang. Una storia controversa dove il Bene e il Male sono i due estremi e in mezzo vi sono l'etica e la moralità come unità di misura. Un film teso dal ritmo incalzante che ad ogni visione risulta ancora più divertente della prima volta. Man in the Dark: recensione del film di Fede Álvarez