Nel 2011 Kathryn Bigelow, alias la prima donna a vincere il Premio Oscar al miglior regista, l’anno precedente per il war movie The Hurt Locker, ritorna in sala con un film molto ambizioso. Zero Dark Thirty infatti si propone di raccontare otto anni di storia americana (dal 2003 al 2011) nel tentativo di sdoganare in tutto e per tutto l’operazione che portò all’eliminazione del terrorista più ricercato al mondo, il capo di Al-Qaeda Osama bin Laden.
Zero Dark Thirty trama
Protagonista indiscussa del progetto è Maya Lambert, agente della CIA esperta delle dinamiche mediorientali, che lavora senza posa e instancabilmente alla ricerca dei vertici dell’organizzazione responsabile, tra gli altri, degli attentati dell’11 settembre 2001. La interpreta una Jessica Chastain perfettamente in parte e candidata all’Academy Award per la miglior attrice protagonista. Maya però procede soprattutto grazie al suo intuito e alla sua lunga esperienza, e spesso non è supportata dai vertici della CIA e dagli organi per la difesa nazionale, e si ritrova ben presto a dover affrontare la propria personale battaglia, tra l’indifferenza generale. Alla fine però i risultati le daranno ragione.
Zero Dark Thirty recensione
Zero Dark Thirty comincia dal principio di tutti i mali, ovvero il famigerato attentato al World Trade Center del 2001. Tuttavia lo fa in modo assolutamente innovativo. La regista infatti, di fronte a fatti che hanno avuto forse più di tutti gli altri una risonanza massmediatica e audiovisiva senza precedenti, si chiede come possa inserire quella tragedia in modo da adattarla al tono generale della sua pellicola. La decisione presa è a dir poco geniale. Fa cominciare la vicenda con lo schermo nero e la sola traccia sonora degli avvenimenti di New York, in modo da oscurarli.
La tenebra generale allude sia al lutto e al rispetto per le tremila vittime dell’attentato, sia alla cecità e all’inconsistenza che quelle terribili immagini hanno assunto a forza di essere mostrate e commentate. La Bigelow sembra affermare che è stato già detto e trasportato su vari schermi tutto ciò che c’era da dire o da far vedere a proposito dell’argomento, e che ognuno ha la sua opinione e i suoi ricordi riguardo a quella vicenda.
Aggiungere anche la sua visione (intesa materialmente come sguardo) personale sarebbe inutile oltre che in contrasto con il tono generale del suo lavoro. La presenza del solo sonoro evita che si possa materializzare ancora una volta quella distrazione ipnotica che inevitabilmente, e purtroppo, le immagini dell’11 settembre portano con sé, e che hanno come risultato quello di svuotare di significato una vicenda che andrebbe ricordata oggettivamente.
D’altra parte questo modo di raccontare i fatti permane per tutto il corso delle due ore e mezza di proiezione. Questa lunga e complicata vicenda viene più evocata che raccontata e ripresa fedelmente. Il racconto diventa così un prodotto ibrido tra la cronaca, la finzione drammatica e la rappresentazione del dietro le quinte di un’operazione così lunga e complessa. Il culmine di questa mescolanza di registri lo si raggiunge quando la regista fa entrare Maya nel ristorante del Marriott Hotel di Islamabad proprio la sera del 21 settembre 2008, data di una delle stragi più terribili con la firma di Al-Qaeda dopo i fatti del 2001.
Ecco che allora la narrazione procede in maniera non lineare e oggettiva, ma per così dire in modo circolare e caotico. Il cerchio sembra chiudersi solamente alla fine di tutto, con l’operazione dei Canarini, forze speciali dell’esercito americano, che, nella notte tra l’1 e il 2 maggio 2011 fanno irruzione nella misteriosa villa-fortezza di Abbottabad, dove Maya ha intuito possa nascondersi bin Laden. In questo modo il cinema diventa per Kathryn Bigelow uno strumento parallelo alla realtà che deve contribuire a raccontarla in toto, senza filtri, in quanto può raggiungere quel grado di completezza a cui solo le vicende romanzate sullo schermo possono tendere.
Il racconto circolare però non riguarda solo le vicende, ma anche i personaggi. Molto ben sviluppato è infatti il contrasto tra l’umanità delle persone coinvolte in queste operazioni, e l’inumanità della loro caparbietà, che sembra quasi robotica. Di conseguenza si alternano momenti di profonda introspezione emotiva nei personaggi, legata alle loro vite “normali”, ad altri dove gli stessi personaggi appaiono quasi come dei supereroi, senza paura e senza difetti, ovviamente dal punto di vista professionale. Indicativa in tal senso è proprio la figura di Maya.
All’inizio del film, di fronte alle terribili torture che il suo collega pratica su un prigioniero vicino ad Al-Qaeda (tra le quali anche la condannata pratica del waterboarding), la donna abbassa lo sguardo, imbarazzata e forse mossa da un senso di colpevolezza che le fa male dentro. Dopodiché, man mano che la vicenda si sviluppa, e con essa cresce la sua impopolarità di fronte ai colleghi e ai superiori, che reputano improbabili le sue intuizioni, lo sguardo di Maya diventa al contempo determinato e freddo, perché tendente a un obbiettivo superiore.
Alla fine del film apre il sacco dove è chiuso il corpo di colui che si pensa sia bin Laden e ne conferma l’identità in maniera meccanica, slegata da ogni emozione umana. Nell’ultima inquadratura, invece, dove la vediamo accomodarsi sull’aereo che la riporterà a casa, ecco che la sua anima ritorna prepotentemente con un pianto di sollievo e di gioia per aver vinto in questa guerra di nervi, prima che militare. Una guerra dove tra l’altro ha combattuto sola contro tutti. Il pianto di Maya diventa così la chiusura del cerchio che ha accompagnato tutto il film.
Il messaggio finale, estremamente forte, è che solo alla fine si possono piangere e onorare le vittime, ma prima bisogna darsi da fare per rispettarne la memoria facendo tutto il possibile per evitare che determinati fatti possano accadere di nuovo. La scelta dell’oscurità iniziale viene così nobilitata del tutto grazie alla scena finale.
Zero Dark Thirty porta con sé i connotati del cinema moderno anche e soprattutto a partire dalla trama, fatta per lo più di episodi realmente accaduti riprodotti anche in questo caso a ritroso, non semplicemente in maniera meccanica come potrebbe fare un qualsiasi regista di basso livello. Quello della Bigelow è un cinema che di prima classe fatto di forti contrasti.
Nonostante questi numerosi riferimenti al recente e tragico passato terroristico, però, il film risulta, incredibilmente, molto godibile anche per coloro che non hanno per nulla presente i fatti narrati, per i classici avventori del cinema della domenica, che vogliono godersi un bel film di guerra. Ovviamente più si conosce la storia meglio scorreranno i 157 minuti di proiezione, in cui tra l’altro le sequenze di dialogo superano abbondantemente quelle d’azione, ma a differenza di molte pellicole di questo tipo tale conoscenza non è totalmente indispensabile per apprezzare questo grande film.
A contribuire a tenere sempre alta la soglia d’interesse ci pensa anche un uso della fotografia e delle luci veramente magistrale, che raggiunge il suo culmine nelle scene di tortura, dove l’accecante luce solare penetra violentemente dalle fessure della porta del bunker, e nell’operazione in notturna (zero dark thirty è un’espressione militare che sta ad indicare la mezzanotte e mezza) dei Canarini, tutta giocata sull’alternanza tra la più netta oscurità e la visione a raggi infrarossi dei militari.
In conclusione, se c’è un film che meglio di tutti ha saputo raccontare la storia recente americana e non solo, e ha permesso anche di accrescere la personale conoscenza di molti spettatori su nomi come Al-Qaeda, bin Laden ecc., citati per anni dai tg, ma quasi mai spiegati davvero in maniera esauriente, questo è senza ombra di dubbio Zero Dark Thirty.