Immaginate di dover maneggiare un oggetto tagliente, pericoloso, che potrebbe rivelarsi letale. Immaginate di non poter godere di una mano ferma, di una presa sicura. E immaginate anche di essere così stupidi da decidere ugualmente di trastullarvi lasciando scorrere la lama fra le vostre dita. Ecco. Questa è l’essenza di “Velvet Buzzsaw”: la sega circolare di velluto che, in modo sconsiderato, autorizzerete a conficcarsi nelle vostri carni. È arte vi diranno. Fa male risponderete.
Non si vendono beni che durano. Qui si smistano percezioni. Sono bolle di sapone, ideali evanescenti, congegni privi di materia a popolare il mondo dell’arte contemporanea e attorno a loro volteggiano vanità, arrivismo e cupidigia. Alla pura arte, quella spinta dall’urgenza espressiva, sollecitata dalla vocazione e nutrita dal genio, non è rimasto luogo per essere ammirata, se non sotto lo sguardo attento di occhi assetati di profitto. L’edonista e volgare universo delle gallerie d’arte che Dan Gilroy esibisce in “Velvet Buzzsaw” è l’iperbolico ritratto di una società nichilista, pronto a prendere vita per divorare chi lo ha alimentato con egoistica devozione.
“Velvet Buzzsaw” è l’ultima elucubrazione mentale di Dan Gilroy, ovvero il padre di una delle creature più brillanti e nefaste degli ultimi anni: “The Nightcrawler – Lo sciacallo”. Quella era la storia di Jake Gyllenhaal ossuto e ossessionato, tormentato e vinto dalla brama di successo nello spietato mondo dell’informazione. Questa è la storia di Jake Gyllenhaal frivolo, narcisista, nudo ed influente. Critico d’arte sovrastimato e dall’obbiettività neutralizzata. Attratto dai colori e custode di un animo pallido e desolato.
Morf Vandewalt (Jake Gyllenhaal) indossa gli occhiali di Clark Kent e sembra godere anche degli stessi superpoteri. Muove espositori e galleristi sullo scacchiere di Los Angeles a suo piacimento, distrugge e divora artisti emergenti come pedine di dama. Sembrerebbe innamorato di Josephina (Zawe Ashton), parassita carrierista che non vede l’ora di manipolarlo. Lei, per il momento, fatica alla corte di Rhodora (Rene Russo), gallerista a cui tutto è concesso, impegnata a scacciare dalla mente un passato anarchico e affamato di arte autentica, a vantaggio di un presente svenduto alla sua mercificazione. Anche Gretchen (Toni Colette) avrebbe voluto cambiare il mondo al servizio di un museo pubblico, ma il mondo appartiene a chi ha le tasche rigonfie di denaro e perciò ora è pronta a svendere i suoi lungimiranti consigli di buyer museale.
In questo ingranaggio feroce di tallonamenti al successo e rincorse all’oro, scommettereste sulla sopravvivenza di uno spirito vulnerabile come quello di Piers (John Malkovich), onesto e scostante, ancorato all’idea che l’arte necessiti solo di libertà e talento?
In effetti non sembrerebbe plausibile conservare la verginità dell’arte in un regno di stupri intellettuali e abusi di tracotanza. Se non fosse che tutti questi avidi ed elusivi pupazzetti rimarranno ipnotizzati da un gioco sanguinario. Qualcuno scoprirà dei dipinti di un defunto artista, qualcuno deciderà di appropriarsene, tutti pretenderanno di trarne profitto. Un’essenza demoniaca si mostrerà decisa a punirli. La rovina li attende.
L’assunto di Gilroy è decifrabile senza un impiego di forze psichiche sovraumane: il mercimonio dell’arte le toglie ossigeno, ne soffoca la virtù. A stringerle le mani al collo sono professionisti impudenti e capricciosi, dall’obbiettività compromessa e dal distratto talento. Sappiamo cosa state pensando. Idea di fondo didascalia e pleonastica vero? Le intenzioni moralizzanti di “Velvet Buzzsaw” sembrano fin troppo intelleggibili, e in effetti si dimostrano tali.
Il film stuzzica la nostra brama di conoscenza solo in merito a quale metodo punitivo attende ogni insopportabile personaggio. “Velvel Buzzsaw” è una satira morbosa deformata dal genere horror: cede alla golosità di ammiccare allo splatter, senza rinunciare al gettare biasimo sulla società contemporanea.
Il punto è proprio questo: “Velvet Buzzsaw” come horror non funziona. La tensione è cristallizzata e gli espedienti narrativi chiamati a rendere appetibile la storia ai palati voraci di mostruosità e terrore sono solo abbozzati. Ma “Velvet Buzzsaw”, forse, un horror non lo è affatto. Lo “sciacallo” Lou Bloom ammaliava lo spettatore fino ad ottenere una partecipazione inconscia e conflittuale. Gilroy nel suo ultimo film ha dissinescato l’ordigno. I personaggi di “Velvet Buzzsaw” sono esclusivamente carne da macello. Gelidi, svuotati, respingenti. In piena opposizione ai viscerali dipinti che vorranno annientarli. Caldi, straripante di vita, ammalianti e traboccanti di dolore.
“Velvet Buzzsaw”, con il caos generato dalla sceneggiatura e l’ordine ristabilito dalla straordinaria fotografia di Robert Elswit, diviene così la perfetta dimora del lato grottesco del mercato dell’arte, aberrante e spersonalizzato.
Una dimora in cui una sola parola può mandare tutto all’aria. Una recensione avversa quale effetto può provocare? Quanti di voi non vedranno questo film a causa del nostro commento? E quanti di voi non sapevano cosa fosse, e ora lo guarderanno, nonostante suddetta nostra riflessione?
Jake Gyllenhaal in “Velvet Buzzsaw” fa esattamente questo: commenta, riflette, fagocita e devasta. La verità è che, faccia a faccia con la bellezza, si sente inadeguato, non sa cosa gli piace, e questo lo fa diventare pazzo. E voi davanti alla magnificenza del talento creativo non vacillereste?
“Velvet Buzzsaw” è una orrorifica sit-com in cui detesterete ogni personaggio. Se non temete di perdervi ricercando il vostro futile intrattenimento sul fondo di un bicchiere che potrebbe rivelarsi vuoto, questo film fa per voi. Se preferite un calice colmo fino all’orlo evitate. All’arte postuma l’ardua sentenza.
Voto Autore: [usr 3,0]