Sembra essere un anno fortunato per l’attrice irlandese Saoirse Ronan, che in questo 2024 è stata il volto protagonista sia di Blitz, firmato da Steve McQueen, che del più intimo The Outrun. Proprio questo secondo film, di cui è anche produttrice, è stato presentato in anteprima al Sundance Film Festival lo scorso gennaio, per poi venire ospitato nel mese di febbraio al Festival del cinema di Berlino e concludere il suo viaggio festivaliero al nostrano Festival di Roma, nel circuito Alice nella città.
La pellicola è diretta dalla regista tedesca Nora Fingscheidt. Il lavoro è adattamento per il grande schermo dell’opera letteraria intitolata “Nelle isole estreme”, in cui l’autrice Amy Liptrop raccoglie le sue memorie. Nel corso dei suoi 118 minuti di durata, il film segue un andamento drammatico classico, in cui Ronan, protagonista incontrastata, è affiancata occasionalmente da Paapa Essiedu.
The Outrun: la trama
La vita di Rona (Saoirse Ronan) non sembra aver mai seguito un andamento regolare, e l’origine della sua confusione si traccia nella famiglia da cui proviene. Il padre (Stephen Dillane), a modo suo amorevole, è per contro fortemente inaffidabile. Soffre di bipolarismo, che nei picchi positivi lo porta ad essere un supporto di spirito per la figlia, ma nei tempi più duri lo fa diventare un ulteriore elemento di complessità in un quotidiano già di per sé sovraccarico.
La madre dal canto suo, separatasi dal padre, ha ricercato la propria identità seguendo la via della fede. Il percorso che ha intrapreso però l’ha resa, oltre che molto credente, eccessivamente rigida agli occhi della figlia. Non a caso, Rona si esaspera vedendola cercare soluzioni al presente della figlia nella preghiera, e nella condivisione con la comunità di cui fa parte.
Proprio per lasciarsi alle spalle un pregresso turbolento e avviluppante, in giovinezza la ragazza ha abbandonato le isole Orcadi, da cui proviene, trasferendosi a Londra. Dieci anni dopo il suo spostamento, torna però alle terre natali in cerca di sé, nel tentativo di perfezionarsi o quantomeno di ritrovarsi.
La ragazza è infatti appena uscita da un centro di riabilitazione per alcolisti, è mossa dalla volontà di dimenticare la sé che era prima di entrarvi e vuole recuperare una sé precedente, più in contatto con le basi della propria esistenza. Nel tentativo di rimettere insieme i pezzi, però, Rona fugge da se stessa tentando parallelamente di scappare dai problemi di alcolismo in cui cade ripetutamente. Decisa ad uscire dal meccanismo di cui è preda, vorrebbe tornare al più presto nella roboante metropoli ma è costretta a rendersi conto che in quanto a tempi sta premendo troppo sull’acceleratore.
The Outrun: la recensione
Quello della protagonista di The Outrun è un cammino silenzioso rispetto al mondo esterno ma dirompente nel nucleo del personaggio. Faticoso e faticato, segnato da false partenze e passi altrettanto falsi. Rona è costretta in un percorso di lotta strenua contro una componente corrosiva della propria persona. Una componente che a fasi alterne ha implicazioni liberatorie ma che nell’economia del personaggio finisce per essere complessivamente distruttiva.
Si tratteggia così un andamento che detta un lungometraggio marcatamente character–driven, guidato quindi più dall’evoluzione del personaggio che non da veri e propri eventi fortuiti. Un’evoluzione che nel caso specifico del personaggio di Rona passa per un’accettazione del proprio sé, dall’abbracciare le sue pulsioni quel tanto che basta ad avere la forza di bloccarle, e dal comprendere i suoi meccanismi intrinsechi al punto da poterli neutralizzare. Per avere in mano le redini dell’intero lungometraggio, la figura principale deve avere forza propulsiva.
Non a caso, con The Outrun ci troviamo di fronte ad una protagonista la cui esistenza arde di fronte ai nostri occhi. Nella prima porzione del suo agire, nonostante scalpiti e si dimeni, si rivela fondamentalmente passiva rispetto a quella che è la sua dipendenza dall’alcolismo. Questa tendenza lascia spazio nella seconda porzione ad un’Eroina decisamente più attiva, che sceglie di tenere in pugno il suo essere e plasmarlo secondo le sue nuove possibilità.
Rona è un personaggio atipico, che nonostante manifesti energie vitali dirompenti ci appare sempre contenuta entro i confini di una facciata modesta, vitrea, quasi glaciale. Trova però sempre il modo di lasciarci intendere il suo stato dell’essere, che si concretizza nell’espediente della tinta ai capelli come riflesso della sua emotività: blu gelido nei momenti di distruzione, biondo pallido in fase di ricerca di stabilità e rosso aranciato in concomitanza di una sopraggiunta armonia.
L’ambiente come anticamera della psiche
Dopo lunghi anni di produzioni statunitensi, con The Outrun ritroviamo Saoirse Ronan in una collocazione geografica che se non propria (l’attrice è irlandese), le è comunque prossima. L’unione dei due elementi, fortunata, determina un soddisfacente allineamento di toni e sfumature emotive. Un mare gelato, un clima follemente rigido, tinte pallide, venti e onde che mozzano il fiato: la cornice ambientale è inviolata e estrema.
Estrema come è estremo l’andamento vitale della protagonista, con una natura circostante che fa eco alla sua pulsione esistenziale, schiudendo in questa comunanza il nodo più lirico dell’opera. Una cornice, quella delle isole Orcadi, che insieme amplifica e abbraccia il suo senso di solitudine, cullando Rona e insieme lasciandole spazio a sufficienza di fronteggiare se stessa. Nel caso di questa protagonista, infatti, la solitudine che inizialmente rifugge viene a posteriori esplorata in doppia lettura: una condizione sì sofferta ma anche tenuta per mano.
Proprio la solitudine, e il distacco della ragazza dalla sé precedente così come dalla componente familiare, le permette di ritrovarsi senza che su di lei agiscano pressioni esterne inevitabilmente dannose. Così come l’ambiente, anche il ritmo stesso del progetto riflette la sua protagonista.
L’andamento riflessivo e in definitiva la lentezza del lungometraggio (che a tratti ha purtroppo la meglio) diventano specchio di una sensibilità di fondo. Parallelamente, la regia di Nora Fingscheidt si impone di non guardare mai alla sua protagonista con pietismo né di denunciarla. La rappresenta invece per quel che è, accarezzandola nelle sue debolezze ma senza perdonarne le storture. Così, compartecipi del viaggio intrapreso dall’Eroina di The Outrun, tiriamo un sentito sospiro di sollievo all’intravedersi del traguardo: ritrovando la propria terra, Rona ritrova se stessa e una via promettente verso la sé futura.