“In tutti i miei film ci sono vari stati emotivi che alimentano le cose. Credo che in questo certamente ci sia la rabbia, ma penso anche che ci sia amore… credo che sia una storia di speranza”: queste le parole con cui Noah Baumbach introduce The Meyerowitz Stories alla conferenza stampa della 55° edizione del New York Film Festival del 2017. In effetti, nel corso della sua carriera il regista ha saputo abituare i suoi spettatori alla rappresentazione di famiglie disfunzionali, come nel caso di Il calamaro e la balena (2005) o del più recente e acclamato Storia di un matrimonio (2019). In questo senso, The Meyerowitz Stories (New and Selected) (2017), da lui scritto e diretto, risulta emblematico. Il film ritrae i membri della famiglia Meyerowitz (l’anziano padre Harold e i figli Matthew, Danny e Jean), perennemente in conflitto tra loro, in bilico tra frustrazioni represse e bisogno di affetto familiare.
A differenza della relazione con la figlia Eliza (Grace Van Patten), pacifica e affettuosa, il rapporto di Danny (Adam Sandler) col padre Harold (Dustin Hoffman) risulta storicamente ostico. Il cattivo legame genitore-figlio si ripercuote inevitabilmente nella relazione tra i tre fratelli, cresciuti in un ambiente caotico e litigioso. Come risulta evidente dal primo dialogo tra Danny e Matthew (Ben Stiller), le complicazioni familiari vissute hanno indubbiamente portato ad un problema di incomunicabilità tra i due, motivo per cui durante il dialogo i fratelli sembrano parlare due linguaggi differenti. Come naturalmente accade, il modus operandi del padre (sposatosi quattro volte) si riflette su quello dei figli: sia Danny che Matthew, in effetti, hanno vissuto crisi matrimoniali. Innegabilmente tra i fratelli c’è dell’affetto, ma essendo cresciuti nell’ombra del padre non riescono ad allontanarsi da quel modo di fare, sebbene ne siano essi stessi logorati (Matthew stanco di scusarsi per la sua bravura, Danny esausto di arrivare sempre secondo) per loro stessa ammissione. In questo contesto, l’esperienza della sorella Jean (Elizabeth Marvel) si rivela, tutto d’un colpo, aliena a quella dei fratelli. Silenziosa e solitaria, quella che pareva essere la più fredda dei tre si dimostra in realtà la più umana e disposta al perdono: il suo vissuto, oltre a sbalordire Danny e Matthew, permette loro di ritrovare l’affetto che li lega.
Sulla vita dei tre, tuttavia, si staglia soprattutto la figura del padre, acclamato artista: tramite questo personaggio Baumbach riesce ad inserire nel film un’interessante riflessione sullo statuto dell’artista. Sin dal principio Harold ci viene presentato come un individuo quantomeno caratteriale: se il suo passato ne esplicita anaffettività e indifferenza, la vecchiaia sembra aver irrobustito i lati negativi della sua personalità. Acclamato dai colleghi e riconosciuto come genio creativo, Harold si rifiuta di abbassarsi a collaborazioni e si mantiene distante dall’ambiente che lo acclama. Ma Harold è realmente un artista dotato o si distanzia dai suoi colleghi perché non riesce a tenere il passo con loro? I centodieci minuti lungo cui la narrazione di The Meyerowitz stories si sviluppa non ci permettono di capire se Harold sia realmente un artista capace, giustamente famoso, o se sia semplicemente viziato; di certo, però, è polemico e presuntuoso. I figli sono cresciuti schiacciati dalla genialità paterna, ma l’avanzare dell’età permette loro di mettere meglio a fuoco la figura del padre, e la visione monolitica che avevano di lui inizia ad incrinarsi. “Forse ho bisogno di credere che mio padre sia stato un genio, perché non voglio che la sua vita sia senza valore. E… e se non è stato un grande artista, allora è stato solo uno stronzo.” (1.33): con queste semplici ma lapidarie parole, in un suo monologo, Danny esplicita lo struggente dubbio, latente dall’inizio del film.
La complessità di questo contesto familiare è colta magistralmente dalla regia di Baumbach. La scelta, ad esempio, di riprendere interamente i dialoghi corali, da quando iniziano a quando si concludono senza troppi stacchi di montaggio, permette di renderli più verosimili (i personaggi spaziano da un argomento all’altro, come normalmente accade) ma anche di testimoniare l’emotional rollercoaster che vivono perennemente i membri della famiglia, passando da amabili conversazioni a liti in cui sfociano decenni di frustrazioni. In questo, la scelta del cast si è rivelata particolarmente efficace. Sandler, da sempre entusiasta all’idea di lavorare con il regista, ha trovato in Stiller un ottimo collaboratore: i due, amici di lunga data, hanno dichiarato di sognare da anni di poter interpretare i ruoli di due fratelli e hanno perciò accolto questo progetto con particolare slancio. Anche la scelta di Hoffman si è rivelata notevolmente azzeccata, poiché l’attore aveva già interpretato in altri film sia il ruolo del padre di Sandler (Mr Cobbler e la bottega magica di McCarthy, 2014) che di Stiller (Mi presenti i tuoi? di Roach, 2004, e Vi presento i nostri di Weitz, 2010).
Nonostante la pellicola del regista abbia degli indiscussi riverberi di stampo drammatico, è difficile stabilire con esattezza se ci si trovi di fronte a una commedia o a un dramma. Se di commedia si tratta, siamo indubbiamente ben lontani dalla comicità fisica e giocosa istituita da celebri modelli precedenti; men che meno si possono trovare nessi con commedie dalla corporalità animalesca, come nel caso di alcuni baluardi della cinematografia di John Landis. Semmai, il confronto che si può stabilire si muove su un altro livello, quello della comicità elegante e studiata, se non intellettuale. In questo, lo stile di Baumbach si dimostra memore della lezione di illustri predecessori quali Ernst Lubitsch e Woody Allen ma anche di generi come la storica screwball comedy. I contesti storico-sociali che hanno portato alla nascita della commedia statunitense anni Trenta sono certamente imparagonabili allo sfondo produttivo dei lungometraggi di Baumbach, ma indubbiamente sono riscontrabili alcuni elementi comuni. In effetti, le lievi nevrosi degli apparentemente irreprensibili protagonisti non sono poi lontane da quelle di certi protagonisti delle più brillanti commedie screwball. Anche i dialoghi incalzanti punteggiati da accenti di raffinato umorismo che ha scritto Baumbach per i suoi personaggi non sarebbero risultati fuori contesto in una commedia degli anni Trenta.
A restituire questa impressione non concorre solo il personaggio di Maureen (Emma Thompson), che sin dai primi minuti pare il principale elemento caotico della famiglia. Dietro ad un velo di agi e raffinata borghesia, tutti i Meyerowitz dimostrano, durante la narrazione, di non avere realmente in mano le redini della loro confusa esistenza. Questo contesto paradossalmente comico ma sempre elegante vuole scatenare l’ilarità dello spettatore, ma la risata diventa in questo caso indice di una ferita ancora non del tutto rimarginata nei personaggi. Proprio come per le commedie di Woody Allen, di cui Baumbach è indubbiamente debitore, i personaggi si muovono in un contesto bizzarro, che rasenta l’assurdo, a metà tra dramma psicologico e commedia sofisticata, e il divertimento che generano non è altro che un’ulteriore manifestazione del loro malessere.
Per fornire un background a questo malessere, risulta particolarmente utile il topos della famiglia disfunzionale, al quale il regista (e autore) è fortemente legato, anche per motivi personali. Nel fornire questa resa tragicomica si rivela particolarmente efficace anche la rappresentazione, ormai ricorrente in Baumbach di adulti che si comportano come bambini, capricciosi e suscettibili. Di quest’ultima peculiarità di Baumbach The Meyerowitz stories risulta essere un esempio perfetto, portando sulla scena un ensemble di personaggi brillanti, verosimili e strutturati ma al contempo feriti e soprattutto estremamente complessi.