Con il fortunato The lost daughter Maggie Gyllenhaal, già attrice (Donnie Darko, The kindergarten teacher) e produttrice, firma il suo esordio alla regia. Il film, 121 minuti di durata complessiva, è un notevolissimo dramma psicologico. Oltre al lavoro dietro alla macchina da presa, Gyllenhaal si è dilettata in fase di sceneggiatura, traendo ispirazione dal romanzo La figlia oscura di Elena Ferrante (autrice, in seguito, della fortunata serie L’amica geniale). Nonostante si tratti di una produzione indipendente la pellicola gode di un cast di prim’ordine, che ha contribuito a garantire al lungometraggio il meritato successo ottenuto sino ad oggi.
La trama del film
La professoressa di letteratura comparata Leda Caruso (Olivia Colman) si reca in vacanza in Grecia, dove durante le pause dal lavoro potrà concedersi il relax offerto dall’idilliaco panorama. Fatta la conoscenza di Lyle (Ed Harris), l’enigmatico uomo che cura la struttura dove la donna alloggia, e di Will (Paul Mescal), giovane tuttofare al resort, Leda trascorre le proprie giornate sulla spiaggia e le serate nell’accogliente paesino. In riva al mare, tra il rumore delle onde e i libri che la tengono occupata, non può fare a meno di notare l’onnipresente e confusionaria famiglia greca che occupa i lettini adiacenti al proprio. La sua attenzione si focalizza in particolar modo sull’avvenente e giovane Nina (Dakota Johnson), madre della piccola Elena.
Le ore che Leda trascorre ad osservare la giovane madre interagire con l’inquieta bambina le riportano memorie dal passato. Con il passare dei giorni, la mente della donna si lascia trasportare sempre più vorticosamente dai ricordi di una se stessa più giovane (Jessie Buckley), alle prese con le due figlie turbolente, un marito poco presente (Jack Farthing) e un magnetico collega (Peter Sarsgaard). Mentre il villaggio greco della vacanza sembra farsi sistematicamente più ostile, l’imperscrutabile Leda viene soffocata da errori, rimpianti e memorie di una vita che pare ormai lontana. Contemporaneamente alla scoperta dei bui segreti del villaggio, la donna riporterà alla luce i suoi più oscuri ricordi, in un vortice di pentimento e invidia per la sé passata.
La recensione di The Lost Daughter
The lost daughter è il tipo di pellicola che comunica con il suo pubblico non solo attraverso una storia, ma anche per metafore. Svariati sono infatti i simbolismi disseminati lungo la trama, che segnano la narrazione conferendole ulteriore significato. Su tutte le metafore, la più evidente è quella del decadimento dello scenario idilliaco in cui si trova la protagonista. Il paradisiaco scenario dell’appartamento appare presto intrinsecamente sciupato (la frutta marcia nella fruttiera, il rumore che arriva dal faro, gli insetti che sporcano i cuscini) e la rilassante spiaggia viene corrotta dalla caotica famiglia greca di Nina. Lena non manca di rendersi conto che la presunta e sfavillante immerciscibilità dell’ambiente in cui si trova non è altro che una patina, posta a copertura della natura corruttibile di un ambiente malsano. Ciò di cui però forse non si accorge è di quanto tali elementi siano metafora del decadimento della propria persona.
Oltre che sulle metafore, The lost daughter poggia su un solido sistema di confronti: il primo ad instaurarsi è quello tra Lena e Nina. Quando si trova in riva al mare, la matura professoressa non può esimersi dall’osservare gli habitués della spiaggia. Li guarda, contemporaneamente distaccata e partecipe, come davanti ad uno schermo. Impercettibilmente, tuttavia, questa modalità d’osservazione le permette di guardare nello stesso modo alla propria esperienza passata. Scandagliando visivamente la sua quotidianità, Lena imposta inconsapevolmente il confronto tra sé e Nina, su cui poggia la narrazione nella sua interezza. A paragone sono messi i loro metodi genitoriali, la loro interazione con l’altro sesso, la sofferenza scaturita dalle pressioni familiari. Inevitabilmente, da tale confronto ne scaturisce uno ulteriore, altrettanto sostanziale per lo svilupparsi della trama: quello tra la matura Lena del presente e la giovane Lena del passato, tramite cui – per mezzo di flashback – la trama si sviluppa.
Ulteriore merito di The lost daughter, nonché elemento caratterizzante, è la sua capacità di approcciare il topos della maternità in modo nuovo e non convenzionale. Il film gioca con tale elemento alimentandolo e al contempo capovolgendolo, mentre propone modelli di maternità – quelli di Lena e Nina – quantomeno dubbi. Le due protagoniste, figure genitoriali assenti o distratte, ribaltano lo stereotipo secondo cui il ruolo femminile trova finalmente la propria completezza diventando madre. Nell’affrontare questa spinosa chiave di lettura aiuta non poco il fatto che, nel caso di questa pellicola, siamo di fronte ad un film “al femminile” in modo compatto. Femminile è il cast principale, composto da Olivia Colman (La favorita, The father, Fleabag, Locke), Dakota Johnson (Suspiria, L’amico del cuore) e Jessie Buckley (Sto pensando di finirla qui, Judy) – cast che, peraltro, già può vantare le lodi unanimi della critica e nomination ad alcune imminenti premiazioni.
Femminili sono anche la regia, la sceneggiatura e il romanzo di riferimento, motivi per cui l’analisi dell’argomento materno è fortunatamente scevra della piattezza che nella trattazione di certi temi è sistematicamente dietro l’angolo. Data la natura di The lost daughter le scelte registiche, improntate prettamente su piani ravvicinati, rifuggono la finalità voyeuristica. Gyllenhaal fa ampissimo uso di primi e primissimi piani, e in alcune occasioni azzarda anche dettagli e particolari imponendosi sul corpo delle proprie protagoniste. Ma non c’è alcun dubbio circa la sua intenzione: la vicinanza non è mai un pretesto per avvicinare il pubblico, ma uno strumento per proiettare la macchina da presa dentro la psiche dei suoi personaggi. In questo modo (aiutata anche da un’intimista e efficace colonna sonora blues) la regia diventa l’elemento manifesto di una vicinanza fisica ed emotiva alle proprie protagoniste.
In definitiva, The lost daughter è tante cose contemporaneamente: un convincente esordio registico, una raccolta di eccellenti interpretazioni; un racconto per metafore, una storia di confronti, una variazione sul tema della maternità, un dramma psicologico. Soprattutto, però, e in modo definitivo, il primo lungometraggio firmato dall’acuta Maggie Gyllenhaal è la narrazione di una catarsi unica, sofferta ma necessaria; la trattazione del ritrovamento della propria identità, che per avvenire necessita di passare attraverso la presa di coscienza di sé e degli altri: così accade per Lena, che ritrova la propria persona leggendo la sua vicenda passata alla luce di quella presente di Nina.