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Synonyms, il film di Nadav Lapid Orso d’oro al Festival di Berlino

Synonyms, Orso d’Oro al 69° Festival Internazionale del cinema di Berlino, è il settimo film del regista e scrittore israeliano Nadav Lapid, probabilmente il più personale, in cui riunisce insieme la propria esperienza autobiografica, il tema del linguaggio, la questione dell’identità rispetto a delle radici vincolanti ed ossessive, e la forma difficoltosa che può assumere il bisogno di libera autodeterminazione.

Così risale a galla nei centoventitrè minuti di visione, un atipico dramma di formazione, cucito in modo epico ed ironico, che procede ondivago, per accostamenti intuitivi e simboli, fluido e decostruito al contempo, incollato al volto ed al corpo di un giovane in fuga, che scappa dalla sua terra, rea di non si sa bene cosa, probabilmente di una distanza dal cuore intraducibile, ancestrale, forse psicoanalitica, e di un ingombro storico sempre sproporzionato, per cercare asilo nella grande, repubblicana, democratica, multietnica, ammalata Francia.

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Blandendo porzioni e nessi causali, Synonyms si aggira come un’odissea fatta di istantanee a volte in controllo a volte anarchiche, quasi in flusso di coscienza, che immergono lo spettatore, come il suo protagonista, in una sensazione di spaesamento sulla falsariga di quella vissuta dal regista sulla sua pelle, quando si trasferì da Tel Aviv a Parigi. Filo dei passi del percorso architettato in questa esperienza franco-ebrea è la parola: infatti il giovane Yoav (Tom Mercier), protagonista del film, alter-ego del regista, fuggito da Israele dopo il servizio militare, decide di strapparsi la propria lingua dalla bocca, rifiutandosi di parlare l’ebraico, e, munito di un dizionario, si accanisce nello studio del francese; legge, studia, ripete, cita, a proposito o a sproposito, aggettivi, sostantivi, a volte verbi, ed ogni sinonimo ad essi collegabile, come fossero preghiere, mantra, elenchi salvifici e significativi, capaci di contenere tutto il non detto che il ragazzo non riesce ad incanalare.

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Yoav fagocita bulimicamente uno degli elementi cardine che legano la persona ad una terra e lo stato ad una specificità nazionale,ossia la lingua d’appartenenza, il dna autoctono, si impunta su termini, si bea della musicalità, sdogana sinonimi, parlando da solo o con i suoi amici, di fronte a Notre Dame, sui ponti della Senna, tra i marciapiedi affollati, nella sua piccola stanza, utilizzando espressioni buffe o desuete, non precise, che risaltano alle orecchie, che si fanno notare per essere fuori luogo, così come lo è lui, senza luogo, apolide, oggettivamente e soggettivamente.

Forte, giovane, dal fisico statuario, appena arrivato nella patria della marsigliese, il ragazzo trova ad accoglierlo un appartamento vuoto ed un furto che lo depriva anche di quei pochissimi effetti personali che aveva con sé. Così Yoav è nudo, neo-nato nel mondo che si è scelto per rinascere, accompagnato da una fame fisica e metafisica, uno sguardo ipnotico ed indagatore, e da Emile e Caroline, due giovani amici francesi, che lo salvano dal freddo, lo aiutano a sopravvivere nel nuovo paesaggio in cui è piombato, discutono con lui di scrittura, musica, vita e noia, ricordi passati ed impressioni future, in un triangolo bertolucciano che sfugge ad un inquadramento, sfocato e non risolto tanto quanto i protagonisti che lo abitano.

Israele è una condanna, è un sentimento che non si riesce a dimenticare, nemmeno a normalizzare, che si vorrebbe condividere, per mandarlo via, ma non si sa in che modo, è un impiego all’ambasciata che si mal tollera, è essere circonciso, è avere conterranei che non ti aspetti, è reprimere rabbia e lasciarla uscire in violenza sorda ed organizzata contro neo-nazi locali, è impulso irrefrenabile di essere riconosciuti da tutti i passeggeri di una metropolitana come ebrei, oppure di passare del tutto inosservati tra la folla con un cappotto quasi chic nella media dei giovani parigini, è essere fisicamente sempre prestante, è non nascondere mai la kippah, è fare esercitazioni militari in cui i mitra sparano al ritmo di canzoni ballabili come fosse la cosa più naturale del mondo, è avere genitori che ridono nel momento cruciale lasciando strali di imbarazzo e di disagio difficilmente ricomponibili, è ricordare ciò che si era tramite storie mitiche mal raccontate come lo fu la leggendaria guerra di Troia e il tragico Ettore, eroe prediletto dal protagonista, che fuggì per nove volte di fronte al temibile Achille.

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Yoav prova ad essere altro dal suo passato, lo relega ad immagini confuse, storie da raccontare all’amico Emile perché le scriva, mentre tenta maldestramente una forsennata integrazione francese,  studiando l’educazione civica, esaltandosi per il pomposo inno nazionale, sposando Caroline, misteriosa creatura appassionata, ma la cittadinanza resta un pezzo di carta, l’appartenenza no.

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Synonyms ha una sintassi preziosa, poetica, a volte complessa e dilagante, ma meritoria: i suoi protagonisti non si esprimono aristotelicamente, non dimostrano tesi, ma restano sospesi, ognuno scomodo nel mondo che gli è toccato in sorte, ognuno in rotta con dei propri fantasmi, ed in nessuno dei casi è facile uscirne vittoriosi. Sono i figli che non imparano dai padri, sono i giovani che rifiutano l’eredità della storia, non osano dirlo, ed infatti Yoav tace di fronte al papà che pur lo raggiunge a Parigi per riportarselo a casa, o alla fidanzata, lasciata a fissare uno schermo vuoto nell’unica chiamata via skype che le dedica.

Non si può nascere altrove, perché il guaio è proprio nascere: lo insegnavano gli antichi classici, e lo dice senza dirlo questo film, una piroetta esistenziale su se stesso, con occhio attento alla poesia (modalità espressiva privilegiata dal regista come dimostra il suo The Kindergarten teacher, del 2014, recentemente rifatto dall’italo –americana  Sara Colangelo).

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Riprese a mano, febbrili e movimentate tra le strade attraversate di corsa, o in modo inaspettato e scomposto da Yoav, montate insieme dalla madre di Lapid, cui il film è dedicato, mentre notevole è la prova del giovane Tom Mercier, dal background simile a quello del regista, che centralizza su di sé l’attenzione, irradiando una presenza scenica importante e senza scampo: il suo corpo divide lo spazio, lo personalizza, lo fa vibrare, convolgendolo nella danza di un apolide infelice ed incompreso, che non sa che farsene di tutta la storia che si porta dietro la sua patria, e sguscia inafferrabile e spesso incomprensibile tra le vestigia di una metropoli occidentale laica, mistificata e strafottente.

PANORAMICA RECENSIONE

Regia
Soggetto e Sceneggiatura
Interpretazioni
Emozioni

SOMMARIO

Yoav, giovane israeliano, scappa dalla sua terra dopo il servizio militare e cerca rifugio a Parigi: lavoro, amicizie, pensieri e soprattutto lingua, sono i campi in cui si deve integrare. Ma le sue radici ingombrano parecchio: dramma simbolico ed impulsivo su identità, linguaggio, autodeterminazione ed appartenenza. Sintassi poetica, struttura ondivaga, racconta senza farlo la rivolta di certi figli verso certi padri, nell'indifferenza di un'Europa ammalata e distratta.
Pyndaro
Pyndaro
Cosa so fare: osservare, immaginare, collegare, girare l’angolo  Cosa non so fare: smettere di scrivere  Cosa mangio: interpunzioni e tutta l’arte in genere  Cosa amo: i quadri che non cerchiano, e viceversa.  Cosa penso: il cinema gioca con le immagini; io con le parole. Dovevamo incontrarci prima o poi.

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