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Suicide Club

Un’affollata stazione della metropolitana, un gruppo di giovani studentesse in attesa, parlano, ridono, scorrono le dita sullo schermo del cellulare annoiate. Il prossimo treno è in arrivo, si mettono in fila, si prendono per mano e prima che questo arresti la sua corsa, improvvisamente, il salto. La scelta della morte, la scelta di lasciare che la propria carne venga dilaniata dalla ferraglia arrugginita del vagone, che il proprio sangue si disperda nel buio sotterraneo della città. La morte e la massa, il sangue e l’autodistruzione, questi gli elementi di uno degli horror più sconvolgenti che l’audace cinematografia giapponese ci abbia mai offerto. Suicide Club non è la storia di un suicidio di massa, ma è la rappresentazione di un’epidemica ribellione all’omologazione.

Suicide Club

Sion Sono è l’uomo che lo ha ideato, scritto e diretto. Nichilista, allucinato, più pragmatico di Tsukamoto, meno grottesco di Miike: Sion Sono è il regista del disincanto. “Suicide Club” (Jisatsusaakuru, conosciuto in Giappone come “Suicide Circle” – 2002) è stato proiettato nei festival di tutto il mondo e nessuno si è più liberato del ricordo di quell’angosciante scena di apertura. Le 54 studentesse che abbracciano la morte sorridendo, quei corpi ridotti a brandelli da un’inspiegabile balzo verso la fine. Quale patto suicida può rivelarsi così solido da convincere ad affrontare la morte in modo tanto feroce? E soprattutto come è possibile che sui loro volti non vi fosse alcuna traccia di malinconia, ma solo uno spensierato sorriso?

Suicide Club

I suicidi si moltiplicano, in ogni parte della città. La polizia locale è chiamata a investigare su quanto sta accadendo. È necessario scoprire se vi sia un sadico burattinaio a muovere i fili. Esiste forse un Club del Suicidio? E chi è a capo di questa tribù di giovani pronti ad annientarsi?

Il detective Kuroda (Ishibashi Ryo, il miserabile e infausto vedovo di Audition di Miike Takashi) è convinto che si tratti di una mera coincidenza, ma il numero dei giovani che scelgono di morire aumenta, e ben presto non è più possibile credere che il fascino della morte si stia diffondendo per puro caso.

Una borsa viene ritrovata poco lontano dal luogo del primo suicidio di gruppo. All’interno ciò che sembrerebbe una pellicola cinematografica, se non fosse che a comporla sono frammenti di pelle, cuciti scrupolosamente insieme. Su quella pellicola è presente almeno un brandello di ogni suicidario della città, un nauseante almanacco dei partecipanti a quel tragico gioco che non vuole finire. Mentre in rete serpeggiano macabri messaggi che inneggiano al suicidio, in tv impazzano le Dessert, un gruppo pop giovanile che seduce con ritmi davvero orecchiabili. Ma quali argomenti sono dibattuti all’interno di quelle chat? E di cosa parlano quelle canzoni che ogni giovane della città conosce a memoria?

Non è un caso se il nome della teen band, nel corso del film, è a volte riportato come “Dessart” o “Desert”. Non sembra anche a voi che tale pronuncia possa ricordare il suono delle parole “Death Art” o “Death Red”?  

Il finale è poetico e ipnotico. Si resta disorientati, con ancora tante domande a cui vorremmo poter improvvisare una qualche risposta. Ma si ha anche la certezza di aver assistito ad una chiara prova di quanto il cinema possa essere potente, soprattutto quando sconsiderato e per nulla ortodosso.

Indimenticabile la sequenza dell’omicidio compiuto al ritmo della soffice melodia del folle Genesis, il sedicente “Charles Manson dell’era informatica” deciso a prendersi ingiustamente il terribile merito di aver fondato il “Club del Suicidio”. Genesis vestito di pelle e tacchi alti, è un personaggio intriso di paranoia e incanto. Siede su una sedia come fosse il suo trono, in una postura che vuole certamente ricordarci il dottor Frank-N-Furter in The Rocky Horror Picture Show, di Jim Sharman.

“Suicide Club” è un film imbevuto d’orrore e sangue: la sua atrocità è tutta nel sereno entusiasmo che precede il suicidio. La competitiva società moderna ci vuole carnefici, cacciatori, belve pronte a schiacciare chiunque tenti di intralciarci. Si è costretti a recidere la parte fragile di noi stessi, la parte umana. È in questa voragine generata dalla frenesia della comunità civilizzata che il “Suicide Club” avanza la sua offerta: ricongiungersi con la propria vera essenza, distruggendo il difettoso prodotto di questa società posticcia. E tu “sei connesso con te stesso?”

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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