Solos è la nuova miniserie antologica realizzata e distribuita da Amazon
Solos è una miniserie antologica prodotta da Amazon Studios e disponibile da questo mese sulla piattaforma di streaming affiliata, Amazon Prime Video. Si compone di sette brevi puntate, non dipendenti l’una dall’altra a livello narrativo. Ognuna ha una durata che oscilla tra i venti e i trenta minuti e riporta nel titolo il nome del protagonista della stessa.
La serie è stata creata da David Weil, già autore dell’apprezzata Hunters con Al Pacino e Logan Lerman (anch’essa presente nel catalogo Amazon Prime Video). Alla regia delle sette puntate si sono alternati lo stesso Weil, il produttore Sam Taylor-Johnson, Tiffany Johnson e il noto Zach Braff (Scrubs, Wish I was here, Ted Lasso).
Le puntate si incentrano su un protagonista (spesso solo, tranne nel caso dell’ultimo episodio) turbolento, il quale si esprime per monologhi che lasciano trasparire un intenso stato di malessere. Tutti gli episodi sono inoltre intrinsecamente legati al grande tema dell’evoluzione tecnologica, quando non a quello della fantascienza.
Gli episodi di Solos
Ognuno dei sette episodi di Solos reca come titolo il nome del protagonista: Leah, Tom, Peg, Sasha, Jenny, Nera e Stuart.Nel primo, Leah (Anne Hathaway) è una scienziata ossessionata dal riuscire a compiere un viaggio nel tempo.
La vita della giovane, che abita in un bizzarro e stracolmo seminterrato, è appesantita dagli insuccessi del suo progetto, dal rapporto conflittuale con la sorella e dalla malattia della madre. Proprio quando sembra che Leah, stremata, abbia trovato la chiave per la riuscita del suo viaggio, la missione sarà paradossalmente ostacolata da due presenze inaspettate ma estremamente familiari: la sé del passato e la sé del futuro.
Nel secondo, Tom (Anthony Mackie) scopre che il suo tempo sulla Terra è limitato e acquista un automa con le sue sembianze affinché questi lo sostituisca nella vita familiare. Perché la creatura possa svolgere al meglio il compito per cui è stato programmata, Tom le svela i segreti più intimi e le abitudini più tenere della vita con la moglie e i due figli.
Nel terzo, l’anziata Peg (Helen Mirren) si è sempre sentita invisibile e sceglie di compiere un viaggio spaziale (di sola andata) per dare un senso alla propria vita. In un assetto dove si sprecano i rimandi visivi e contestuali a 2001: Odissea nello spazio, la donna racconta all’intelligenza artificiale nella navicella le tappe fondamentali del proprio passato, con carisma, eleganza e sensibilità.
Nel quarto, Sasha (Uzo Aduba) è chiusa da vent’anni in una casa a seguito di una dannosa pandemia mondiale. L’ipocondriaca e irascibile donna dialoga con l’intelligenza artificiale che cura l’abitazione: quest’ultima vorrebbe forzarla ad uscire di casa, assicurando che ogni pericolo è ormai scampato da anni, ma l’ostinata donna si rifiuta a più riprese.
Nel quinto, l’incontenibile ma fragile Jenny (Constance Wu) si trova in una sala d’attesa. La giovane racconta direttamente allo spettatore (per mezzo di un brillante monologo con sguardo in macchina) alcuni episodi del suo passato, tentando di ripercorrere le tappe che l’hanno portata in quel misterioso e anonimo ambiente. Ma la sua memoria tende a vacillare, e i suoi precedenti si riveleranno più oscuri del previsto.
Nel sesto, Nera (Nicole Beharie) è una donna incinta, relegata in una piccola capanna isolata. Alla rottura delle acque, la coraggiosa protagonista gestisce magistralmente la situazione e riesce a dare alla luce il figlio. Ma basteranno pochi minuti per comprendere che si tratta di una nascita tutt’altro che comune, e il pargolo, inconsapevolmente, rischierà di risultare fatale per la donna.
Nel settimo, Stuart (Morgan Freeman) è un anziano apparentemente affetto da demenza senile. L’uomo è raggiunto dal giovane Otto (Dan Stevens), che tramite complessi mezzi tecnologici gli permette di riguadagnare la memoria. Ma mentre Stuart torna a scoprire il mondo e il suo passato, le motivazioni che hanno spinto Otto a questo gesto magnanimo saranno chiarite e i precedenti di Stuart prenderanno una svolta oscura.
Solos lascia trasparire con forza le influenze che lo hanno reso possibile
Solos è indubbiamente debitore nei confronti di Black mirror, altra serie antologica ormai divenuta istituzionale nell’ambito della serialità degli ultimi anni, soprattutto quella a sfondo scientifico.
La riflessione sull’evoluzione tecnologica portata all’esasperazione ha avuto successo anche al cinema negli ultimi anni (si vedono, a tal proposito, Her e Ex machina), ma il debito nei confronti di Black mirror in questo caso è preponderante, e si riflette anche nella struttura.
Sia la serie di Weil che quella che l’ha preceduta presentano una struttura antologica con episodi legati solo a livello tematico, che per entrambe è il medesimo, quello già citato della tecnologia. In entrambe quest’ultima si scontra con i più primitivi ed essenziali istinti umani, amore e sopravvivenza in primis.
Se già con la recente Soulmates Amazon aveva dimostrato di voler riproporre parzialmente l’esperimento di Black mirror, con questa serie la replica si fa completa e integrale, quantomeno negli intenti.
Ma Solos è anche marcatamente figlia della pandemia che ha segnato le vite degli spettatori nell’ultimo anno e mezzo. Non a caso, in tutte le puntate (tranne l’ultima) il protagonista è solo, isolato in un ambiente chiuso, claustrofobico, rispecchiando un’iconografia che abbiamo imparato a riconoscere sin troppo bene grazie alla nostra esperienza recente.
Con l’episodio di Sasha, ambientato a seguito di una pandemia, la citazione si fa esplicita; ma anche le altre puntate non mancano di fare eco all’esperienza pandemica nelle atmosfere.
I personaggi sono costretti tra quattro mura, e non possono far altro che riflettere su ciò che più li turba, li rende inquieti, fornendo allo spettatore di volta in volta derive narrative interessanti.
Gli interpreti d’eccezione di Solos
La miniserie sembra reggersi quasi unicamente sulle spalle dei propri interpreti. Poiché la struttura narrativa implicava monologhi lunghi e complessi, per evitare ridondanza o piattezza la produzione si è rivolta a performer di altissimo livello, che elevano esponenzialmente il risultato finale. Su tutti, spiccano i nomi di due leggende dei nostri giorni: Morgan Freeman e Helen Mirren.
Il primo è capace di restituire magistralmente la polarità tra la vacuità della demenza senile e la drammaticità delle rivelazioni sul proprio passato, confermando il suo statuto di attore di prima classe.
Altrettanto si può dire di Mirren, che fornisce una delle interpretazioni più riuscite della serie. L’attrice danza con eleganza tra i toni che modulano la narrazione del suo passato, dall’infanzia traumatica all’incerta adolescenza. Mirren ha la grande dote di rendere perfettamente sullo schermo l’oscillazione tra la rabbia frustrata (data dal sentirsi sempre invisibile) e la dolce spensieratezza, tra la timida cortesia e la più cupa ed esistenziale disperazione, in una performance indiscutibilmente riuscita, tanto elegante quanto d’impatto.
Questi due interpreti monumentali sono affiancati da colleghi più giovani ma altrettanto efficaci. Lo spessore dell’episodio che ha per protagonista Anne Hathaway è dato tutto dalla (triplice) performance dell’attrice.
Hathaway si era già messa in gioco con il mondo delle serie tv, curiosamente con un’altra produzione Amazon, Modern love: l’episodio in cui compariva è stato considerato quasi all’unanimità la punta di diamante dell’intera serie.
Se la puntata di Solos in cui apparenon può essere considerata il suo lavoro migliore, la colpa non è certamente sua quanto della sceneggiatura, ed è più che lecito affermare che con il materiale che le era stato fornito l’interprete ha portato a termine la miglior performance possibile.
Allo spettro delle emozioni messo in campo da Hathaway non manca nulla: ironia, disperazione, stress, giocosità e rabbia. Altrettanto lodevole il lavoro effettuato dal quasi coetaneo Anthony Mackie. Se in principio di fa portatore di una coolness quasi d’altri tempi, la sua performance sfocia poi in un culmine di pathos e commozione.
Meritevoli di plauso anche le forse meno conosciute Uzo Aduba (più legata alla serialità che al cinema) e Nicole Beharie, ma la vera scoperta della miniserie è indubbiamente Constance Wu. Fortunatamente, l’attrice risulta capace di elevarsi dai ruoli che l’avevano resa nota, in primis quello di Rachel nella commedia romantica Crazy & rich, restituendo una performance inaspettata e sorprendente.
Wu porta un travolgente ed emozionante turbinio di passioni nel suo monologo, con perenne sguardo rivolto verso la macchina da presa (e dunque verso il pubblico), passando dalla leziosità alla riflessività, dalla solarità alla disperazione, dall’ironia alla crisi più buia.
Gli aspetti più critici della miniserie
Le ineccepibili performance degli attori menzionati sono utili a bilanciare alcuni aspetti non prettamente positivi del prodotto. La prima criticità si ha con la struttura del monologo, riproposta gioco forza in quasi tutte le puntate.
Dovendo i personaggi spiegare al pubblico come sono arrivati al presente della narrazione senza esplicitare che le parole sono rivolte ad un ipotetico spettatore, i discorsi corrono spesso il rischio di risultare didascalici.
Dall’altro lato, talvolta la natura teatrale della forma monologica si fa sentire un po’ troppo, e la natura dei discorsi rischia di diventare eccessivamente lirica. Per aumentare la commozione del narrato, gli autori inseriscono nei monologhi forme letterarie desuete e certamente non colloquiali che tendono spesso a rompere la finzione scenica.
Ulteriori dubbi ha destato la durata delle puntate: i venti/trenta minuti facilitano una visione rapida e non troppo impegnata, ma in certi casi risultano limitanti ai fini narrativi, facendo sì che la trama risulti maldestramente sviluppata.
Sebbene le puntate non siano collegate tra loro, in Solos alcuni elementi distintivi si ripetono tra gli episodi definendo l’identità della serie
I sette episodi sono fortemente distanti gli uni dagli altri (ad eccezione forse Tom e Peg, labilmente connessi). Ciononostante, alcuni elementi si ripetono all’interno della serie determinandone l’identità. In primis, l’impostazione teatrale, data dall’espressione monologica e dall’unità di spazio, luogo e azione.
Torna anche fra le puntate il concetto del conto alla rovescia, più o meno implicito a seconda degli episodi, fondamentale per accrescere le aspettative dello spettatore ed intensificare la tensione. Oltre al fil rouge tematico della tecnologia, già evidenziato, l’altro elemento narrativo che distingue Solos è la solitudine.
Si tratta di una condizione certamente contestuale, dato che i personaggi sono soli nelle loro stanze, ma è forse ancor più marcatamente uno stato esistenziale, che accomuna i protagonisti fornendo coerenza alla serie.