Shiva Baby applaudito al Toronto Film Festival 2020, è ora disponibile su MUBI, la piattaforma di cinema in streaming che piace ai cinefili.
Argomento da autentico horror, soprattutto se ai ripetuti tentativi di fuga vengono sprangate le porte, richiamando alla memoria l’opera teatrale di Sartre del 1944. Perché quello toccato in sorte a Danielle, giovane studentessa di gender studies, è un tiro mancino sadico e irritante “a porte chiuse”. Al tavolo verde di Shiva Baby giocano ai dadi l’umiliazione e le attese sociali: ad ogni lancio scomodissime domande di rito animano le bocche ruminanti dei parenti. Quando ti laurei? Il fidanzato? Stai mangiando abbastanza?
A Danielle si rimprovera in opprimente successione di mangiare troppo o troppo poco, di essere ostinata nei suoi ideali femministi ma al contempo di non essere la giovane self made woman che tutti apprezzerebbero, di essere troppo seducente ma allo stesso tempo di non aver ancora avuto l’audacia di accalappiare un buon pretendente. Se pensavate che tempo, cultura e lotta al patriarcato avrebbero reso le donne consapevoli e padrone di loro stesse, eccovi serviti un bagno di mesta verità: il machismo è solo stato brevemente oscurato dall’imperante economia di mercato. Siate orgogliose donne, avete conquistato il dovere di divenire imprenditrici di voi stesse.
Shiva Baby: le crudeli e distorte corde di un violino
Shiva baby è un film crudele. Non tanto per il verificarsi di azioni brutali o spietate. E nemmeno perché quasi tutti i suoi 77 minuti si avvicendano attorno ad una celebrazione funebre ebraica, lo shiva appunto. Quanto per la perversa e scellerata voglia di urlare e darsela a gambe che lo spettatore non riesce a scrollarsi di dosso durante la visione.
Complice la scelta di avere Fred Melamed al centro di molte scene, ci si sente come smarriti in una riunione familiare delle migliori commedie di Woody Allen, persi in quella cultura ebraica raccontata da “La fantastica signora Maisel”, con un’insostenibile impazienza di uscire dal disagio generazionale in cui è franata la giovane protagonista.
Un rinfresco funebre dovrebbe essere di per sé bastevole a motivare un pomeriggio poco entusiasmante. Eppure ad evidenziare che la massima “non c’è limite al peggio” si conserva in tutta la sua maestosa attendibilità anche dinanzi alla morte, ecco aggiungersi al mesto banchetto a base di beigel le domande insistenti dei parenti che prendono a bastonate la tua autostima e l’assillo delle occhiatacce lanciate dalla tua vecchia fiamma. Se questo non si dimostrasse ancora sufficiente ecco tua madre affannarsi maldestramente per non farti apparire una fallita, e il tuo sugar daddy clandestino bussare alla porta con barbie-moglie e figlioletta al seguito. Così la dipartita del lontano parente si dimostra davvero una fonte d’angoscia maledettamente superabile.
Fastidiosamente stropicciata, dissonante, sconclusionata la colonna sonora di Ariel Marx (autrice delle musiche anche di “Ted Bundy: Falling for a Killer”), distorce suoni orchestrali ed elettronici, donando all’incedere degli eventi un tono eccitante ed alquanto sconcertante. Le persone si stringono attorno a Danielle, inquisiscono, scrutano, esaminano la sua vita, divorano quel briciolo di sicurezza al quale lei tenta di restare aggrappata. I rumori di fondo barcollano tra un insopportabile bisbliglio e un frastuono di altisonanti voci infernali. L’ambiente si restringe, soffoca, i primissimi piani trasfigurano i volti.
Shiva Baby trama
New York. Inquadratura fissa. Danielle (Rachel Sennott) è in un appartamento dalle giganti vetrate impersonali. È con Max (Danny Deferrari). Stanno facendo sesso su di un divano fuori fuoco immerso nei toni neutri di uno spazio trascurabile. La telecamera si concentra su di un telefono che squilla. Il resto dei dettagli non è importante. Nessun primo piano a rivelare emozioni, a spogliare la carne, a ricordare il desiderio di due corpi che si cercano. Il sesso è prevedibile quanto il grigio in cui si consuma.
Danielle risponde al telefono, avvicinandosi al fuoco della macchina da presa. Finalmente la telecamera ci regala l’imperscrutabilità del suo giovane volto. La madre (Polly Draper) le ricorda dell’appuntamento funebre al quale non è consentito tardare, mentre Max si affretta a pagarle la prestazione. Lui che la circonda in un abbraccio, dicendole di essere così orgoglioso di poterla sostenere nel suo percorso di realizzazione personale. “Voglio aiutarti con la tua laurea, credo sia importante sostenere le donne imprenditrici. Tu sei il futuro”. Certo, Max. Grazie. Lei fredda mantiene il suo volto il più possibile distante da quello dell’uomo, per poi ricordare quali sono i dettami del sex work e baciarlo con simulata passione.
Ben presto scopriremo che nessuno dei due è ciò che dice di essere. Danielle non è iscritta alla facoltà di giurisprudenza, ma è ancora totalmente incerta su quale sia la strada da intraprendere. La sua scelta di guadagnarsi da vivere mediante l’App Sugar Baby e di “accompagnare” uomini più grandi e facoltosi di lei sembrerebbe più un tentativo di mantenere il controllo su almeno una parte della sua vita. Perché tutto il resto non ha ancora i confini definiti di un obiettivo da raggiungere, né il brillante sfavillio di un sogno da avverare. Max invece è segretamente sposato con una biondissima donna in carriera. È lei a mantenerlo, a sborsare per le sue costosissime cene, a pagare, probabilmente, anche l’elegante bracciale avvinghiato al polso di Danielle.
I segreti con cui Danielle deve destreggiarsi si accumulano e allo shiva (periodo di sette giorni in cui la famiglia della persona defunta osserva il lutto, accogliendo in casa familiari e conoscenti) le cose si complicano ulteriormente. Al nervosismo costante causato dalla perenne menzogna sulle proprie mancate aspirazioni professionali, si aggiunge la tensione nel trovarsi a interagire con Maya (Molly Gordon), la sua ex ragazza delle superiori. “Niente giochetti con Maya” le rammenta la madre, convinta che il suo orientamento sessuale sia “una sperimentazione dovuta all’impeto giovanile”. E si presenta anche Max, proprio quel Max, il premuroso cliente, con la moglie Kim (Dianna Agron, già vista in Glee), così ricca e di successo da richiamare un grandioso consenso tra gli indiscreti partecipanti dello shiva.
Shiva Baby è una commedia dannatamente interessante soprattutto per la scelta di non criticare la decisione di Danielle di guadagnare soldi, di cui non ha apparentemente bisogno, tramite l’attività di sex worker. L’attenzione è tutta rivolta a smantellare l’ingannevole successo di Max, palesando che tutte le sue originali passioni sono finanziate dalla moglie. È una rivelazione che trasforma profondamente le dinamiche di potere, e avanza una critica molto più tagliente: il desiderio maschile di apparire a uno status più elevato di quello in cui si trova la propria compagna è assai subdolo. Sia Max che Danielle hanno mentito a chi sta loro intorno, ma solo uno di loro lo fa per necessità finanziarie.
Shiva Baby un vero film dell’orrore
La regia di Emma Seligman incornicia ossessivamente il volto della bravissima Rachel Sennott, restituendo la sensazione, anche visiva, che la giovane sia sprofondata in una situazione paradossale in cui i volti rugosi e ruminanti dei parenti si ammassano dinanzi ai suoi occhi, fagocitando ogni aspirazione d’evasione.
I primissimi piani, i dettagli sul corpo, i dialoghi disarticolati mettono in evidenza il bestiario dei partenti di Danielle: inquietanti, invadenti, fisicamente e moralmente ingombranti. Le loro aspettative, i commenti sulla quantità di cibo che ingerisce, sugli abiti che ha scelto di indossare, le domande sul futuro spingono verso la parodia, ma Seligman riesce a rifuggire lo stereotipo del tradizionale conflitto generazionale per mettere in scena, con riuscita leggerezza, la tensione nichilista (e a tratti autolesionista) di una giovane donna in lotta con il resto del mondo.
C’è indubbiamente una cosciente perversione nel confinare la protagonista in uno shiva, con i rituali funebri che si trasformano in una rappresentazione metaforica del suicidio sociale di Danielle. La sceneggiatrice e regista Emma Seligman utilizza riprese anguste e una fotografia opprimente, tanto asfissianti da far apparire quel ritrovo familiare un vero incubo.
Shiva baby e la sua mostruosa voglia di ridere dell’angoscia
Shiva Baby è soprattutto un film impregnato di una caustica autoironia.
La protagonista è un groviglio di contraddizioni: una forte coscienza di sé, del proprio corpo e della propria sessualità si accompagna a una profonda insicurezza, derivata dall’incertezza di un futuro che le generazioni precedenti hanno causato, senza mai comprendere quanto possa essere disorientante tentare di crescerci in mezzo, in un ambiente in cui ogni persona che le rivolge parola sembra fermamente convinta che la realizzazione personale coincida con quella professionale. Perché che tu ti senta libero di amare chi vuoi, nel modo che ti rende felice, mangiare il cibo che decidi tu, spendere il tuo tempo e vendere le tue competenze, ed eventualmente il tuo corpo, come decidi tu, beh ecco questo secondo loro non ha nulla a che vedere con una libertà che può rendere appagati.
Nonostante tutta questo tormento, Shiva Baby è un film profondamente ottimista. E ciò risulta evidente nella sequenza finale, in cui la tensione comica trova finalmente libera manifestazione. Nonostante si avverta ogni tanto il preciso ticchettio delle unghie sopra i testi della precisa scrittura Shiva Baby ha il grande pregio di spogliare il disagio generazionale di molti preconcetti. Una ragazza come Danielle, con libertà artistica, risorse, una laurea e genitori per lo più solidali si sente ugualmente impotente e intrappolata. Le parole che si possono udire non appena si ha il coraggio di smettere di ridere dicono che il non sapere quale strada intraprendere è un sacrosanto diritto, e che la soddisfazione personale sarebbe da ricercare nella libertà di essere.