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Pasolini: cinema e politica – Prima Parte

Pier Paolo Pasolini, di cui quest’anno si celebra il centesimo compleanno, è una figura unica. Pochi altri artisti hanno saputo attraversare un ventaglio talmente vasto di discipline come ha fatto lui, portando avanti una propria poetica precisa, politicamente impegnata e ancora oggi estremamente attuale. Pensatore e intellettuale dalle idee ferme, rivalutato molte volte nel corso degli anni, Pasolini è una figura affascinante, senza dubbio controversa, che continua incessantemente ad essere studiata e analizzata.

Proprio la complessità di questo artista rende impossibile condensare una riflessione esauriente su di lui in poche righe. In questo articolo si proverà quindi a tracciare un percorso della sua carriera cinematografica, attraverso i film più rappresentativi della sua poetica e del suo stile. Non bisogna tuttavia dimenticare che, oltre che regista, Pasolini è stato anche uno scrittore, poeta e drammaturgo e nel ripercorrere la sua filmografia non si può tralasciare questo aspetto, in quanto tutti i suoi lavori dialogano tra loro per via dei comuni temi e riflessioni, che rendono la sua intera opera artistica un grande indivisibile mosaico.

L’esordio: Accattone e Mamma Roma

Pasolini

Pasolini esordisce al cinema negli anni Cinquanta, lavorando innanzitutto come sceneggiatore. Il suo romanzo d’esordio, Ragazzi di vita, ha grande successo, al punto che Pasolini comincia ad essere coinvolto nella scrittura di pellicole che raccontano la vita di borgata del dopoguerra, centro drammatico di quel suo primo romanzo. Tra queste, una delle sue collaborazioni più felici è quella con Fellini per Le notti di Cabiria.

Ricordiamo inoltre che da Ragazzi di vita Cecilia Mangini trarrà il suo film documentario Ignoti alla città (1958), a cui collaborerà anche lo stesso Pasolini e che sarà l’inizio di una fruttuosa collaborazione tra Pasolini e Mangini. Pasolini, infatti, collaborerà anche ai testi di Stendalì – Suonano ancora (1960) e La canta delle marane (1961), entrambi diretti proprio da Cecilia Mangini.

Solo nel 1961 Pasolini avvierà la sua carriera da regista, con Accattone. È un film fondamentale per Pasolini, perché oltre ad essere il suo esordio e film-manifesto della sua poetica, è anche il film che segna l’inizio del sodalizio con Franco Citti, una delle collaborazioni artistiche più fortunate del cinema italiano. Accattone porta avanti il discorso di Ragazzi di vita, quel racconto epico-lirico delle classi più disagiate, e alle parole aggiunge le immagini in movimento. Accattone è un resoconto della miseria in cui versano le borgate del dopoguerra. In linea con la tradizione neorealista, Pasolini chiama a sé attori non professionisti, abitanti di quelle stesse periferie, che si ritrovano ad interpretare se stessi. Con questo film Pasolini si pone allo stesso livello dei personaggi che racconta, di quegli “accattoni”, che vengono inquadrati dall’interno, da una macchina da presa che si mette alla loro stessa altezza.

Pasolini

Seguendo le disavventure del protagonista, la sua graduale discesa verso una degenerazione morale che non sembra lasciare scampo, Pasolini racconta quella violenza antiborghese che nasce ed esplode in quei contesti dove gli uomini non hanno più nulla da perdere.

Il film, presentato alla Mostra di Venezia del 1961, avrà problemi con la censura e sarà solo il primo di un ideale trittico che proseguirà poi con Mamma Roma e La ricotta, episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G.

Mamma Roma (1962), infatti, prosegue l’indagine di Pasolini all’interno delle periferie romane del dopoguerra. Al centro narrativo questa volta c’è una donna, Anna Magnani, rappresentante di quella veracità romana tipica del neorealismo. Rispetto ad Accattone la riflessione di Pasolini si evolve, mettendo in scena quella che è una possibilità di redenzione, un tentativo di riscatto sociale: Mamma Roma cerca in tutti i modi di liberarsi da quella condizione di miseria in cui si trova insieme al figlio (Ettore Garofolo), prospettando un futuro di speranza che però ancora una volta verrà tradito dal tragico finale.

Infine, La ricotta (1963) è l’apice di questo percorso iniziale, dove la rappresentazione delle condizioni sociali del dopoguerra si accompagna ad una ricerca espressiva e visionaria che attinge direttamente dalla tradizione pittorica. Se infatti in questa prima fase della sua carriera, il cinema di Pasolini risente ancora un po’ della sua inesperienza con la macchina da presa, è anche vero che la sua ricerca visiva è già ricca di suggestioni. Sono molteplici in questi film i richiami a grandi opere dell’arte visiva, tra cui i lavori di Andrea Mantegna, Rosso Fiorentino e Pontormo.

Pasolini da Comizi d’amore a Uccellacci e uccellini

Pasolini

Dopo l’esperienza nelle periferie, Pasolini si cimenta nel documentario: prima con La rabbia (co-diretto da Giovannino Guareschi), poi con Comizi d’amore (1964), tramite cui fotografa la società italiana e il suo rapporto con la sessualità.

C’è poi Il vangelo secondo Matteo (1964), a cui seguono le medesime polemiche di vilipendio della religione che avevano investito anche La ricotta. Con questo film Pasolini mette in scena una riproposizione realistica della storia di Gesù, svuotata da ogni sacralità per abbracciare un’oggettività materiale del racconto biblico. È la prima volta che Pasolini ha a che fare con una storia non originale: così come farà anni dopo con il mito, allo stesso modo Pasolini filtra il Vangelo attraverso la propria poetica, tramite la lente di un artista che non è un cattolico praticante, che tradisce addirittura l’iconografia cattolica, preferendo a un Gesù dai tratti dolci e delicati come siamo abituati a immaginarlo, un Gesù ambiguo, di una forza visiva inaspettata.

La riflessione di stampo religioso tornerà anche in Uccellacci e uccellini (1966). Al centro due personaggi, un padre e un figlio (Totò e Ninetto Davoli), che vagano senza una meta per le stesse campagne e periferie di Accattone e Mamma Roma. Insieme a loro c’è un corvo parlante, espressione dell’intellettuale di sinistra – come viene suggerito innanzitutto dalla cadenza emiliana di Francesco Leonetti, che dà voce all’animale – di stampo marxista, che cerca di convincerli delle proprie idee. Al termine del film, i due uccidono il corvo e se lo mangiano. Pasolini racconta così il tramonto delle idee marxiste, la caduta di un’ideologia che, pur nella sua fine, riesce a lasciare qualcosa: i due protagonisti, mangiando il corvo, assimilano qualcosa di quell’ideologia che hanno deriso e l’intellettuale si fa così martire delle sue idee.

Per questo straordinario film, che vive costantemente di metafore, simboli e allusioni, Pasolini chiama a sé Totò, erede della tradizione della commedia dell’arte, che Pasolini ha molto a cuore. L’attore, il cui talento recitativo era stato per anni soffocato all’interno di un ventaglio di commedie che ne avevano ingabbiato il piglio a metà tra l’umoristico e il tragico, ha qui una possibilità di rivalsa: al Festival di Cannes viene insignito di una menzione speciale, oltre a vincere il premio al Miglior attore ai Nastri d’Argento.

Edipo re

Un anno dopo Pasolini realizza il suo primo film a colori, Edipo re (1967), che è anche un’opera estremamente personale, dove il racconto fittizio si intreccia con esperienze autobiografiche. La storia di Edipo, infatti, è narrata all’interno di una cornice che porta lo spettatore in un paese del nord Italia e poi a Bologna, luoghi importanti per la formazione personale di Pasolini. Il complesso di Edipo, richiamato esplicitamente all’inizio della pellicola, è l’anticamera di un film che ci porta poi nel Marocco contemporaneo, trasformato in una Grecia antica tutt’altro che filologica. L’interesse di Pasolini non è infatti la fedeltà totale alla tragedia di Sofocle, bensì utilizzare il testo di partenza per raccontare la cecità dell’uomo occidentale, la sua incapacità di vedere e comprendere la verità, laddove quella stessa verità rimane confinata tra le genti del Terzo Mondo.

Pasolini racconta l’alienazione dell’uomo moderno e soprattutto la sua stoltezza, che gli impedisce di uscire da tale condizione. Edipo, qui interpretato da Franco Citti, è proprio l’archetipo di quest’uomo moderno, il quale alla fine, dopo essersi materialmente accecato e in questo modo essere uscito dalla condizione di cecità intellettuale che fino ad allora lo aveva perseguitato, diventa un profeta – prende il posto dell’indovino Tiresia – e lo vediamo vagare per le strade di una Bologna novecentesca.

Anche qui la riflessione ideologica di Pasolini non viaggia da sola, ma è accompagnata da una trasfigurazione visiva che cala un approccio documentaristico all’interno un contesto scenografico dalla grande espressività. Visivamente è il film più maturo di questa prima fase di Pasolini e segna un notevole punto di svolta nella sua carriera. Edipo re è senza dubbio uno dei film più affascinanti di Pasolini, una delle sue opere più visionarie e intrinsecamente cinematografiche.

Roby Antonacci
Roby Antonacci
Giornalista per Vanity Fair, collaboratrice per Moviemag, scrivo da sempre di cinema con un occhio attento a quello d'autore, una forte passione per l'horror e il noir, senza disdegnare i blockbuster che meritano attenzione.

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