Novembre, sottotitolo I cinque giorni dopo il Bataclan, è l’ultimo film di Cedric Jimenez, presentato fuoriconcorso al 75. Festival di Cannes, ed è la ricostruzione della caccia furibonda e disperata ai terroristi responsabili dei drammatici attentati del 2015 che misero a ferro e fuoco la capitale francese.
Una vorticosa indagine fatta di pedinamenti, intercettazioni, dati incrociati, assalti armati in stile guerriglia urbana, droni ipertecnologici, passi falsi, piste inconcludenti, promesse tradite, che si è dipanata tra varie nazioni, Francia, Belgio, Austria, Marocco, all’indomani dei sanguinosi fatti accaduti al Bataclan, allo Stadio parigino e nella regione dell’Ile de France.
Alle spalle di questa pagina di cronaca terroristica contemporanea che ha segnato uno spartiacque, come viene anche ripetuto nel film tra un prima ed un dopo “il 13 novembre”, ci sono due fatti chiave, uno specifico, l’altro generalizzato.
Novembre – Trama
Il primo è la fuga ad inizio 2015, nella città di Atene, di Abdelhamid Abaaoud, terrorista jihdaista belga-marocchino, sospettato di essere coinvolto nel tragico assalto alla sede di Charlie Hebdo. Il secondo è l’onnipresente infinito spettro della Siria, campo martoriato di radicalizzazione e addestramento per nuove reclute dell’ISIS.
Il protagonista è Fred (Jean Dujardin), a guida dell’intera operazione che terrà occupate le forze antiterroristiche francesi, polizia, esercito e servizi segreti; i loro movimenti avvengono su territorio nazionale e non solo.
Sul loro operato fortissime pressioni del presidente della Repubblica, dei superiori responsabili della sicurezza interna, del governo, dei media e della popolazione locale e mondiale scioccata dagli eventi terribili che hanno fatto di Parigi una città sotto assedio.
Accanto a Fred, figure femminili, forti, determinanti e drammatiche. Ines (Anais Demoustier), agente mossa da un forte senso del dovere, al punto di anteporre la propria missione alle rigide procedure da seguire in questi casi, così da arrecare più danno che aiuto all’intera operazione; Julia (Victorie Du Bois), cugina di uno degli attentatori, tramite di notizie, supporto informazioni e denaro per il gruppo criminale, invischiata non di sua sponte, in un tunnel senza via d’uscita e Samia (Lyna Khoudri), sua storica amica, testimone decisiva per lo sgominamento della banda, aggrappata a promesse di salvezza per sé e per la compagna.
Novembre – Recensione
Novembre è un film-cronaca degli spostamenti frustranti e dolorosi cui le forze dell’ordine si sono sottoposte per individuare, avvicinare e catturare i responsabili delle stragi. Una lotta in affanno sul bersaglio da raggiungere, sempre un passo indietro rispetto alla meta, con un tassello ancora da mettere a posto, nomi che mancano all’appello, spostamenti e collegamenti non del tutto tracciati.
Il tutto da centrale operativa a strada, tra le banlieu e il centro parigino, con uomini in strada e veicoli disseminati per tutta la città, mentre quella stessa città resta sbigottita e traumatizzata a leccarsi le ferite. Ferite, queste ultime, mai fatte vedere, solo evocate: il sangue è intuito, lo strazio anche, i cadaveri memoria, nel segno di un’asciuttezza radicale.
La Francia contemporanea sul patibolo del terrorismo
La Francia è messa sul patibolo internazionale, obiettivo primario di un terrorismo indomito, sciolto, organizzato e non organizzato, prevedibile ed imprevedibile, che ancora non ha chiuso la bocca definitivamente, e proclama crociate contro l’occidente idolatra e miscredente. Le radicalizzazioni e le scie di morte che si portano dietro sussistono nel loro circolo vizioso; i martiri con le cinture esplosive e le famiglie che sono dietro questi giovani suicidi anche.
Sono realtà fatte di isolamento e precarietà, di debolezza e razzismo, di armi, indottrinamento e denaro, nonché odio verso una civiltà che implicitamente o esplicitamente segrega.
Che i buoni non siano proprio buoni Novembre lo sa e lo dimostra: nell’impotenza spesso tributata alla polizia, di fronte a varie mosse andate a vuoto, nella sensazione di mancata protezione verso le vittime dei primi attentati, verso i collaboratori esposti al rischio, usati e lasciati al loro destino, verso le perdite umane ovvero chi era innocente non ce l’ha fatta, verso le vite normali che nessuno coinvolto in queste vicende sembra riuscire a mantenere.
C’è un alone retorico, in grande stile, un mostrare i muscoli, dettagli tecnici di armi e procedure, che rendono la narrazione seria e disperante al contempo, una gravità impotente, ferma sul posto, sul suo lago di sangue.
Ed è proprio questa sproporzione tra forze impiegate e obiettivi raggiunti (anche rispetto al come si sono raggiunti) a inaridire la vittoria temporanea dei paladini della giustizia.
Muscoli, dettagli e sensazione di impotenza
L’assalto a Saint Denis impiega minuti su minuti ad essere descritto come uno spiegamento abnorme di forze che letteralmente crivellano di colpi un comune appartamento, un esercito in piena regola schierato davanti ad una porta chiusa, una pioggia di piombo che non evita la dannata esplosione, ossia il finale che si voleva evitare.
L’inseguimento di Julia, pedina strategica della situazione, è condotto da quattro uomini contemporaneamente, dispersi tra mercati rionali, code, scambi di persona, folle ostili e poco conosciute, che mescolane le carte ed inghiottono sembianze.
Cronaca chirurgica che forza un controllo dello stress emotivo
Le emozioni sono tagliate fuori dall’inizio, nel discorso motivazionale ed organizzativo che Fred rivolge a tutti gli uomini per prepararli psicologicamente alle ore che sarebbero seguite: un lavoro che deve mettere da parte lo stress emotivo perché non può permetterselo, una missione che ha bisogno di ragionare ed agire velocemente, non di vedere rosso, né di perdere concentrazione.
E così la regia segue il racconto, in uno stile secco e quasi chirurgico, barocco nella descrizione degli elementi usati per le singole operazioni, dalle armi, ai droni, ai computer delle sedi operative, e coerente nella sua etica di non mostrare. L’attacco finale è realizzato attraverso riprese aeree, con silenzi registrati, pause, scariche improvvise di colpi, ma non per amore di trincea, polvere, chiasso e piombo fini a se stessi.
Novembre è frenetico e frammentato, ha un ritmo battente che ricorda quello de I Miserabili, senza quella stessa cattiveria.
Ma allo stesso modo non lascia tregua, come tregua non avevano i protagonisti: è ossessivamente in movimento, non ricrea un’immersione alla Bigelow, per capirci, ma raccoglie un patchwork elegante, ferito, irrequieto e contraddittorio della cronaca di ore critiche e dolorose.
Il tempo scorre febbrile e tesissimo dentro un rompicapo da cui non dipende più la salvezza delle persone, ma la necessità di trovare un colpevole, quasi a qualunque costo.
Novembre – Cast
Dujardin è un fascio di muscoli e nervi, alterna attesa ed impazienza, mentre si logora nella volontà di riparare un errore primigenio, la mancata cattura del sospetto organizzatore del 13 novembre.
Al suo fianco risplendono la Demoustier, potente scenicamente e fragile, il lato leale e al contempo deluso dell’intera vicenda.
Notevole, come spesso ci ha abituato a vederla, la Khoudri, la cui parabola personale sfida e giustifica le paure individuali, mette in campo la fedeltà e il valore dell’amicizia, ma anche la capacità di avere fiducia nell’istituzione statale che troppe volte bypassa la propria stessa parola per porre rimedio a situazioni di crisi spesso create da lei stessa.
Novembre è l’inizio di una guerra, la presa di coscienza di uno dei più grandi stati contemporanei di aver fallito, in qualche modo, di aver dormito su delle braci e di aver indotto un incendio.
E’ il ritratto di un disastro che rimedia a se stesso con la colpa addosso, ma il cerotto è infinitamente più piccolo della ferita, e si alza una polvere che non sparirà tanto facilmente. Risultato: noi crediamo sempre meno, mentre a terra rimangono sempre meno persone vive, in senso letterale e non.