My first film è un lavoro difficile da catalogare. Zia Anger ha messo in scena un’opera che si muove tra la finzione e il reale, fino a confondere i due piani. Forse sarebbe corretto parlarne come di un’opera documentaristica con elementi di finzione. Forse è vero il contrario: un’opera di finzione con elementi documentaristici. Anger sceglie volontariamente di tenere tutto assieme, forse per non aderire troppo ad una storia che, in fin dei conti, parla di lei, del suo mestiere di regista.
My first film – trama e cast
My first film è una produzione MUBI, con un cast composto prettamente da attori e attrici provenienti dal circuito indipendente. Vita (Odessa Young) è una giovan regista, che dopo essersi vista bocciare un progetto decide di mettersi in proprio. Vuole a ogni costo portare in scena la storia di questa giovane donna rimasta incinta e per farlo ricorre a sua volta a elementi quotidiani. Inserisce nelle sue riprese delle sequenze con le due madri riprese nella vita di tutti i giorni. Vita è circondata da un cast alla prima esperienza, come lei, che per questo si trova a fare i conti con la propria incertezza e la paura di fallire.
Il film che dovrebbe intitolarsi Always All ways, Anne Marie è quindi un doppio, un progetto speculare allo stesso My first film. Elemento che risulta chiaro dalle sporadiche ma importanti “irruzioni” con la voce fuori campo della stessa Anger. Ci vengono così resi chiari i pensieri e le ansie di Vita. Tutto sembra restare sospeso nella trama, fino al finale, coinvolgente e spiazzante che merita di essere apprezzato senza spoiler. Per buona parte del cast si è trattato quasi del debutto assoluto, hanno preso parte al film però anche attori già noti. È il caso di Philip Ettinger (già apprezzato in First Reformed di Paul Schrader) ma anche di Jane Wickline che è diventato noto per i suoi video comici sui social, tanto da finire al Saturday Night Live.
My first film – la recensione
Zia Anger si confronta con un genere che in qualche modo appassiona spesso i registi: il racconto stesso di come si fa un film. Il genere autobiografico anche se spesso ibridato, evidentemente affascina i narratori stessi. Alcuni registi hanno raccontato il momento e il modo in cui sono rimasti folgorati dal cinema, come sono approdati al loro primo film. Spesso si tratta di film anche dall’alto contenuto emotivo: Fabelmans, Belfast, sono i primi nomi che vengono alla mente per questo genere. Con My first film Zia Anger si colloca sullo stesso piano narrativo, ma ribalta prospettive e canoni. Non è un film di formazione, come invece i film di Branagh e Spielberg. È più che altro un fatto di sopravvivenza.
La regista incarna una visione vitale del cinema: nel senso che ne fa la sua ragione di vita. Allo stesso tempo, è un lavoro che è stata in grado di realizzare solamente alla luce della giusta prospettiva temporale. La storia era là, il primo film che ha tentato di girare, la paura dell’insuccesso e ancora di più, lo spettro del fallimento. Vita si scontra con tutto questo, il grado di autenticità del film è alto, proprio perché realmente autentico. Anger non rinuncia all’elaborazione di temi interni al film. Tra il concetto di autodeterminazione e il tema dell’aborto si rimarca la possibilità, infatti, di parlare di sé ma senza diventare autoreferenziali. Funziona l’idea di tenere assieme la finzione, la realtà, senza demarcare precisamente il punto in cui uno inizia e l’altro finisce.
Non importa, riproverò. Fallirò meglio
Anger si muove lungo il crinale di questa citazione di Samuel Beckett. La regista mette in scena il fallimento, ce ne rappresenta due prospettive diverse. C’è quella di Vita, sé stessa da giovane, per cui quel fallimento è la fine di tutto, ma c’è Zia per cui quel fallimento è una ripartenza. Ha avuto bisogno di tempo per elaborare questa concezione di sé, di quello che si fa. My first film potrebbe avere un successo importante al di fuori dei circuiti indipendenti proprio per le modalità con cui tratta questo tema. Perché contiene in sé tutti gli elementi che ne potrebbero fare un film generazionale. Questo al di là della qualità stessa del film, come spesso accade un’opera generazionale non ha bisogno di essere perfetta.
La cifra più importante di questa rappresentazione resta quindi l’autenticità con cui il tema viene affrontato. In un film non privo di errori, il risultato è comunque il forte impatto sul pubblico. Anger ha messo in scena sé stessa, senza il proposito di un discorso generale, che però lo diventa. È evidente la volontà di sottrarsi alla tentazione di dare lezioni, di un’impronta moralistica. Anger dimostra di essere una regista in grado di muoversi su entrambi i fronti: quello immediatamente reale del documentario, quello della finzione. Alla luce di questi elementi, se il film non è perfetto, riesce a produrre una certa risposta nel pubblico, senza sconti, senza banalità.