L’impegno in un abbraccio è il poderoso titolo con cui si presenta agli occhi dello spettatore il lungometraggio sceneggiato da Giusi Virzi, attrice e scrittrice ligure, qui in veste di interprete protagonista nonchè di assistente alla regia, ambientato nella bella Genova, i cui scorci iconici e suggestivi vengono colti e restituiti dalla mano del regista e documentarista Carmelo Marino.
Come sottotitolo iniziale c’è una dedica alla propria madre, indizio di una femminilità alla quale rendere forse omaggio o forse giustizia, un pensiero cardine di guida e tenerezza che intuiamo possa aver ispirato il racconto.
L’impegno in un abbraccio è imperniato sul dolore di Marina, una donna ferita, tradita e maltrattata, capace di reagire e risollevarsi dalla prostrazione in cui l’egoismo e l’arroganza altrui l’hanno precipitata, per ritrovare se stessa, il proprio equilibrio e la voglia di sorridere alla vita.
Marina è una moglie tradita dal proprio marito, che le recrimina in faccia la sua infelicità ogni giorno, alzando la voce e le mani su di lei; è una madre abbandonata e quasi ricattata da un figlio irriconoscente, despota ed aggressivo; è una donna punita nella sua femminilità, provata ma luminosa, nonostante il digiuno coatto di calore fisico; è una lavoratrice sfruttata dalle signore presso cui svolge le pulizie, dove viene umiliata più volte; è un corpo fragile e sensibile che cede alle emozioni e al peso del quotidiano, senza mai ricevere solidarietà dagli affetti più cari, né una carezza o un abbraccio di sfogo e conforto.
Anzi, progressivamente le sue braccia protese verso l’altro da cui implora perdono, amore o attenzione, vengono respinte, rimandate al mittente e cadono nel vuoto, come le sue lacrime, copiose ed improvvise, silenziose o rumorosissime, a seconda delle circostanze in cui si ritrova ad agire.
Tra i colori marini delle spiagge liguri, le fisionomie urbanistiche genovesi fatte di ponti, accavallamenti, sopraelevate, aggrappate alla terra degradante verso il mare, nel verde della vegetazione che emerge a testa alta in mezzo al traffico instancabile della capitale, si muove il personaggio definito dalla Virzi, con le stimmate di una passione addosso, in un’allegoria scenica che trasforma il verosimile in un’iperbole, emblema e monito sulla resistenza femminile, sul rispetto dovuto alla donna, spesso mancato, intossicato o devastato da chi le è più vicino, sulle infinite sfaccettature che il femminile sa contenere e restituire, quelle famose moltitudini che vagano all’interno del nostro essere, che sostengono i momenti bui ed aprono porte laddove si stagliano precipizi.
Così Marina, in virtù ed oltre la sua presenza e la sua storia, è un totem dell’altra metà del cielo, incarna la temperatura di certa odierna femminilità, abusata eppur protagonista, vincitrice morale (e non solo) di un’epoca balorda ed antisolidale, che ha tentato di sottometterla inutilmente; è una gatta capobanda di tanti felini randagi che sfida la morte con le sue sette vite, una fenice in grado di risorgere dal proprio passato di ceneri avvelenate, riscoprire la dolcezza di un presente vivo, sano e vegeto ed abbracciare un futuro che indossa tutti i colori più belli dell’arcobaleno.
La sceneggiatura inanella perle istintive e fatiche di genere, e la Virzi dona al suo personaggio un midollo teso e vulnerabile, fin troppo empatico rispetto alle vicende che la travolgono; al suo fianco un cast tecnico ed attoriale, verace, seppur non sempre professionista, che al netto di imperfezioni ed incongruenze evidentemente riscontrabili, si lascia affezionare grazie ai propri intenti nitidi e zelanti.
Coinvolgenti le musiche di Massimiliano Cosimi, probabilmente usate con una frequenza eccessiva, ma assolutamente concordanti rispetto alle situazioni date; spiazzano per il loro montaggio repentino, incuriosiscono e riempiono gli occhi di una bellezza malinconica, gli stacchi ambientali di Marino su una città che commenta il malessere di una e di tutte le sue anime, un agglomerato urbano che nientifica ed amplifica empatia ed assenza di empatia nei confronti di chi lo abita, lo gode e lo soffre giorno dopo giorno.
L’impegno in un abbraccio è altro rispetto ad un film: è semmai una dichiarazione d’intenti, un messaggio in bottiglia a risvegliare l’umanità dei rapporti, ad invocare l’amore reciproco e disinteressato, è uno schieramento a braccia aperte verso il meglio che deve venire, augurandoselo con tutto il cuore. Ciò attraverso uno sforzo creativo ed etico, non privo di ombre ironiche e cenni romantici, che ha la volontà di presentarsi nella sua forza e nella sua debolezza, in trincea, senza maschere nè stratagemmi.
Potremmo anche definire questo lungometraggio come un percorso conoscitivo ineluttabile, una presa di coscienza dolorosa e senza ritorno, un risveglio terapeutico dall’ortodossia che etichetta, santifica e dà per scontato il ruolo femminile, dentro e fuori le mura di casa. La figura di Marina, infatti, diventa quasi cristologica ed attua una rivoluzione: trasforma un dramma familiare prosaico in un’odissea generosa, intensa, a momenti paradossale, capace di coniugare il patema piccolo borghese con un’indole poetica, sentimentale e sorridente, indizio di una libertà adulta, profonda, consapevole delle proprie radici, non rassegnata alla solitudine, al capo chino, al sì d’ordinanza, alla morte interiore, prima che a quella esteriore.
In un’epoca di distanza, paura e fragilità, L’impegno in un abbraccio è il filo di Arianna che per aspera sembra invitare “a riveder le stelle”.