Esistono film che difficilmente riescono ad inserirsi in una categoria precisa, perché racchiudono in sé e sconfinano in diversi generi cinematografici. È il caso de Le invisibili, scritto e diretto dal giovane regista e scrittore francese Louis-Julien Petit.
Commedia, dramma sociale, cronaca quasi documentaristica. Un film che racconta un tema complicato e difficile con estrema ironia e delicatezza, capace di suscitare una pluralità di sensazioni tutte insieme. Dalla commozione alla risata, dalla rassegnazione alla speranza. Spesso intricati nella medesima scena o nell’arco di pochi minuti.
Storie di donne escluse, ignorate, invisibili
Chiunque si guardi intorno nelle grandi città è portato a credere che i senzatetto siano in realtà sempre maschi. Un malinteso, secondo il regista Louis-Julien Petit, che nel suo terzo lungometraggio dà un volto e pone al centro della storia queste donne escluse, ignorate, invisibili.
Ambientato in una cupa e grigia città nel nord della Francia, molto lontana dalle consuete immagini idilliache della bella Nazione che si trovano nelle guide turistiche e nelle cartoline, il film segue le vicende di quattro assistenti sociali di un centro diurno che offre assistenza alle donne senza fissa dimora.
Equilibrio precario, sostegno delle autorità pubbliche sconcertante e, quando il Comune decide di chiuderlo, le quattro donne decidono di tenerlo aperto clandestinamente. Si lanciano in una missione impossibile: dedicare gli ultimi mesi a trovare un lavoro al gruppo delle loro assistite per reintegrarle nella società.
Le invisibili e il duro realismo sociale
Disarmante, onesto, sincero, il film porta alla luce queste donne che sono nell’ombra senza giudicarle. Persone che chiedono di essere viste e ascoltate. Dialoghi giusti, messa in scena efficace, cast eclettico, multi-generazionale e multietnico che riflette il nostro mondo, la nostra società. E manda un grande messaggio di solidarietà, umanità e speranza.
Il regista si è immerso completamente in quel mondo trascorrendo un anno di volontariato nei rifugi per senzatetto delle donne a Grenoble e a Parigi. Con l’obiettivo di provare a capirlo e per raccontarlo nel modo più corretto e accurato possibile. E, in effetti, il risultato è più che sorprendente.
Con una buona dose di impegno e divertimento, Petit evita alcune insidie del duro realismo e si avvicina alle geniali commedie sociali seguendo le orme di registi come Ken Loach e Stephen Frears. Ma anche ai nostri più vicini Ettore Scola e Luigi Comencini, lavorando con attori non protagonisti per rappresentare i lati più oscuri di un paese afflitto da disoccupazione, disuguaglianza e ingiustizia sociale, con un sorriso.
Un film luminoso che induce a riflettere sulle persone “invisibili” della società
Nonostante Le Invisibili sia comunque un film di denuncia i suoi toni sono tutt’altro che arrabbiati. All’inizio sembra zoppicare un po’ e non decollare. Ma poi decolla, avvolge e travolge, e ti tiene agganciato per tutto il tempo. Un film luminoso che, nella sua complessità, risulta leggero e godibile. E induce molto a riflettere sulla figura di queste persone “invisibili”.
Ispirato al lavoro sul campo rivolto alle donne senza dimora di Claire Lajeunie, che ha dedicato un libro (Femmes Invisibles – Survivre à la rue) e un documentario (Sur la route des invisibles), il film offre anche un ritratto prodigioso delle assistenti sociali e delle volontarie che senza egoismi e tornaconti sono impegnate ad aiutarle. Spesso “invisibili” anche loro stesse agli occhi della società.
Donne che donano anima e corpo per il loro lavoro e per la loro causa e che, nel film, riescono con tenacia e determinazione a dare dignità e speranza a queste donne emarginate. E a farle risalire dal baratro di inerzia e rassegnazione in cui si trovavano.
Mentre il ruolo delle quattro assistenti sociali è affidato ad attrici professioniste, come Audrey Lamy e Corinne Masiero, le varie donne senza fissa dimora interpretano loro stesse. Con un passato reale di vita per strada, dominano letteralmente la scena con grande maestria e naturalezza. Infatti, il film funziona principalmente perché dipinge un ritratto di persone reali che affrontano problemi reali.
Adolpha van Meerhaeghe che interpreta una delle donne senzatetto e offre la più straordinaria interpretazione del film. Era solita dormire fuori dalla stazione di Lille e, come viene detto anche nel film, ha trascorso quasi un anno in prigione per aver ucciso il marito violento che la picchiava.
La verità è che non si nasce senza fissa dimora. Molte delle protagoniste sono diplomate, avevano un lavoro e una vita più o meno normale. A volte però accadono alcune tragedie e le cose precipitano alla velocità della luce e può capitare a chiunque di cadere e di ritrovarsi per strada. Ma il film ci mostra che con il giusto aiuto ci si può rialzare, esprimendo perfettamente il concetto di resilienza, risalire sulla barca rovesciata.
Forse non a caso il nome della struttura è “Envol”, che significa proprio “prendere il volo”. E, alla fine, il volo loro lo prendono per davvero. Anche se nella scena finale vengono scoperte e portate via dal centro, non sono più invisibili, né agli occhi degli altri né a loro stesse. Camminano a testa alta con sguardo fiero come se fossero su una passerella, con più sicurezza e consapevolezza delle proprie capacità, pronte ad affrontare la vita.