“L’Avventura non è un film per tutti, è un film per pochi”: queste alcune parole del trailer del primo film della trilogia dell’ incomunicabilità di Michelangelo Antonioni.
Film italiano presentato a Cannes nel 1960, vincitore del premio giuria, divise- come tante altre grandi opere- la critica in maniera netta: piacque più all’estero che in Italia.
Quell’anno a Cannes trionfò La Dolce Vita di Federico Fellini, “rivale” di Antonioni.
Nel bel Paese infatti il cinema d’autore era rappresentato anche da Fellini, le atmosfere oniriche e barocche dei suoi film erano e rimangono antitetiche al fare cinema di Antonioni.
Il regista ferrarese infatti basa tutto sulla composizione, priva di orpelli: un’immagine vicina alla storia dell’arte, ma che va dritta all’essenza, senza perdersi in altri elementi.
L’Avventura- trama
L’Avventura è un viaggio, e come tale non è solo un itinerario a tappe geografiche, ma è soprattutto una speculazione nella natura umana, soprattutto una ricerca essenziale nella società alto borghese dell’Italia dei primi anni ’60.
La pellicola inizia a Roma, pur sviluppandosi in un secondo momento in Sicilia. Anna (Lea Massari) è fidanzata con Sandro (Gabriele Ferzetti), una relazione non ben vista dal padre di lei e che sembra non avere particolare futuro. I due sono in vacanza alle isole Eolie con altri amici: fin dal prologo grande importanza viene data al personaggio di Claudia (Monica Vitti), amica stretta di Anna.
Fin da subito il gruppo di amici si palesa come un’insieme di persone vuote: non ci sono particolari interessi né qualità, il tempo scorre in maniera del tutto ritmata, senza mai particolari episodi. Dopo uno strano scherzo organizzato dalle due giovani amiche la barca sosta in un piccolo isolotto,Lisca Bianca, qui improvvisamente si perdono le tracce di Anna. All’inizio la preoccupazione colpisce i protagonisti, in particolare Claudia sembra disperata: tutti cercano la ragazza.
Ma dopo poco questa ricerca diventa sempre più labile e di facciata, a nessuno interessa davvero ritrovarla, anzi si arriverà alla fine della pellicola alla conclusione che sia meglio che Anna non ritorni mai. Durante la ricerca infatti, Claudia e Sandro hanno iniziato una sorta di relazione. Non c’è etica né una storia romantica nel senso classico del termine, solo un viaggio nei luoghi della Sicilia non ancora interessati dal boom economico ed all’interno della propria personalità.
A Noto vediamo con l’occhio dei proletari dell’isola la figura elegante del personaggio interpretato dalla Vitti che, come in un quadro, sembra la figura in primo piano di uno sfondo composto da monumenti di antica bellezza oggi in decadenza. A Taormina, nell’albergo di lusso San Domenico Palace, all’alba- consuetudine del cinema d’autore italiano degli anni ‘60- c’è Sandro: Sandro traditore, osservato dagli occhi delusi di Claudia, anche lei traditrice nei confronti dell’amica scomparsa. È proprio qui alla fine del film che in un momento di confessione Claudia rivela ad un’altra villeggiante che vorrebbe che non si trovasse Anna, anzi preferirebbe che fosse morta. È forse il punto più basso dal punto di vista etico ma siamo così affezionati al personaggio che non riusciamo a giudicare, anzi compatiamo e partecipiamo del dolore di Claudia nel momento in cui trova Sandro con un’altra.
L’Avventura termina con un’inquadratura di una bellezza disarmante, considerata da alcuni critici quasi una citazione alla pietà di Michelangelo: su una panchina troviamo la silhouette, vista di spalle, di Claudia e Sandro. La sua mano pietosa tocca la testa dell’uomo, perdonandolo, i personaggi sono piccoli e quasi insignificanti davanti all’immensità della natura e del cielo.
In quel gesto c’è tanta umanità e proprio per questo il finale emoziona, così come tutto il film.
Borghesi vuoti e paesaggi mozzafiato
Per tutto il film sembra quasi che ci sia un contrasto tra il vuoto che interessa l’essenza dei protagonisti, anche di quelli secondari, e il paesaggio che, pur non imponendosi né facendo parte della trama, è sempre un elemento che cattura l’occhio dell’osservatore. Talvolta è un paesaggio rimasto incontaminato, ad un certo punto del film invece diventa un paesaggio che sta subendo i cambiamenti del boom economico, gli stessi che stanno cambiando gli uomini.
Il film di Antonioni non vuole moralizzare, non è una critica alla società italiana, né soltanto un affresco, o meglio una fotografia. Colpisce infatti il bianco e nero e l’attenzione maniacale alla bellezza estetica di tutta la pellicola. Se dovessimo definire L’Avventura con tre parole la prima sarebbe sicuramente eleganza: un’eleganza stilistica, narrativa ed estetica. È l’eleganza degli anni ’60, che si potrebbe pensare non appartenesse a tutta la società, ma senza dubbio a quella fetta che, pur essendo priva di valori, aveva sicuramente buon gusto.
I personaggi infatti non brillano mai per qualità morali o azioni lodevoli, anche quando si presenta brevemente un’artista non sembra che abbia davvero qualcosa da raccontare. La seconda parola è sicuramente viaggio proprio perché nonostante l’assenza di un fine moralistico, c’è comunque un percorso che interessa soprattutto il personaggio femminile di Claudia.
Magistrale l’interpretazione di Monica Vitti, che con questo film inizia la sua brillante e lunga carriera cinematografica, ed al contempo una relazione sentimentale con Michelangelo Antonioni: sarà la sua musa per altri tre film, La Notte, L’Eclisse e Deserto Rosso. Quando cesserà la loro relazione terminerà anche il sodalizio artistico. Questo personaggio femminile così moderno ed al contempo così vicino al valore cristiano del perdono nel finale è senza alcun dubbio il più interessante del film, forse anche perché ritroviamo in panni diversi la stessa Monica Vitti nelle successive opere del regista.
La terza parola è senza alcun dubbio incomunicabilità, non è infatti un caso che il film insieme ai due successivi costituisca proprio la trilogia dell’incomunicabilità: è l’uomo del ‘900 ridotto ai minimi termini, così come lo sono le scene. Non ci sono orpelli né decorazioni, si arriva al punto cruciale in cui però non ci si riesce a trovare. In una società in evoluzione chi è davvero l’individuo? Questa questione in fondo ha interessato di certo l’uomo in tutto il corso del ‘900, ma anche oggi rimane centrale: proprio per questo motivo il film è un capolavoro imperdibile anche nella nostra società.
L’Avventura: una lezione di estetica ai posteri
Pur affrontando, anche se con una trama in fin dei conti molto semplice, un tema importante non tanto dal punto di vista sociale quanto sociologico, l’aspetto visivo è sicuramente essenziale in questa pellicola di Antonioni. Già dal bianco e nero infatti si evince una certa cura, così come nella composizione delle inquadrature- il regista parte dalla storia dell’arte, un po’ come Kubrick in Barry Lyndon– e non c’è mai una scena in cui in qualche modo l’ambientazione è priva di importanza. Nelle tre pellicole, soprattutto nelle due successive, l’architettura è una grande protagonista, in certi momenti più degli attori.
Vedendo il film è evidente che molti altri registi abbiano preso spunto da Antonioni, così come lui sicuramente aveva fatto dalla francese Nouvelle Vague, seppur riadattando lo stile al proprio. Il rapporto di Antonioni con la nuova onda francese infatti non è tanto tecnico-stilistico quanto nel significato delle opere, questo continuo mutare della società che interessa l’individuo e lo confonde, che alla fine porta alla caduta dei valori, e l’assenza di una denuncia sociale, cosa che invece era avvenuta in Italia con il Neorealismo.
Tra i registi più moderni che hanno imparato la lezione di Antonioni è impossibile non citare Wong Kar- wai, soprattutto con In The Mood For Love (2000), il regista sembra quasi in alcune scene riportare a colori l’eleganza e lo stile di Antonioni. L’inquadrare i personaggi che camminano di spalle, con fare sinuoso ed un andamento quasi musicale. Un altro regista che cita in particolare una scena de L’Avventura- ovvero quella in cui la protagonista indossa una parrucca davanti ad uno specchio, in compagnia di un’amica- è David Lynch nel suo capolavoro del 2001, Mullholland Drive. Il fatto che due maestri come Lynch e Kar-wai abbiano citato questo film accresce ancor più l’importanza ed il prestigio che la pellicola riveste nella cinematografia italiana ed in generale nella storia della settima arte e del cinema d’autore.
L’Avventura probabilmente è ancora un film per pochi, o lo si ama o lo si odia, ma vederlo è quasi un dovere, vista la portata monumentale dell’opera d’arte.