Brughiera scozzese; 1985, piena epoca vittoriana; siamo nel mezzo di lande nebbiose, selvagge, incontaminate e rigogliose. Katherine (Florence Pugh), giovane ragazza curiosa e intelligente, viene venduta in matrimonio, come si usava fare all’epoca, per un pezzo di terra da pascolo ad Alexander Lester (Paul Hilton), possidente di terreni e miniere, figlio ed erede del ricco padre Boris Lester. Non c’è amore nella loro unione, solo convenienza: dalla ragazza ci si aspetta obbedienza assoluta ed un erede. In particolare il suocero preme affinchè svolga i suoi doveri di moglie, ma il marito la mal sopporta, quasi la ignora e neanche la sfiora.
Trattata come un oggetto di proprietà, la giovane vive prigioniera nel palazzo del marito, spesso lasciata in balia di se stessa, nel silenzio di camere e corridoi, con un libro di preghiere: non le è permesso uscire perché, anche se a lei piace moltissimo camminare all’aperto e la sua pelle -parole sue- “è forte”, l’aria fredda potrebbe farla ammalare ed inoltre non è bene che una donna vada in giro sola per le campagne del luogo.
Nell’indifferenza generale, priva di stimoli e di interessi, Katherine si aggira sola, attraverso il vuoto della grande casa, fatica a dormire la notte e a svegliarsi le mattine, fissa malinconica e desiderosa i paesaggi che risplendono fuori dalla finestra, si lascia vestire, svestire, spazzolare i lunghi capelli ramati dalla cameriera Anna, vegeta indolente e insoddisfatta.
Quando marito e suocero sono costretti a lasciare la dimora per un’emergenza alla miniera in città, Katherine cerca uno sfogo che dia respiro alla sua giovane indole repressa, combattiva e assetata di novità: trova le braccia di Sebastian (Cosmo Jarvis), uno stalliere dipendente dei Lester e non le lascia più. Se ne innamora fino alla perdizione, in lui ritrova tutto quello che non ha avuto e che desidera da un uomo, e, forse, dalla vita, lo ama, lo vizia, lo protegge, anche quando la loro relazione viene scoperta.
Per poter restare insieme alla sua unica fonte di gioia Katherine è disposta a compiere e di fatto compie ogni tipo di delitto, dal più giusto al più inaccettabile, in un climax progressivo di perdizione, sadismo, sensualità e violenza folle che gela il sangue e provoca perversa empatia per la sorte di una donna-diavolo troppo a lungo costretta a subire e ora incapace di sottrarsi ai suoi barbari istinti.
Non c’è niente che stimoli la libertà quanto un vincolo: il problema è la misura. Qui abbiamo un regista teatrale, William Oldroyd, al suo primo lungometraggio, anno 2016, che infonde la propria sapienza scenica in una storia essenziale, di grande rigore estetico, tutta concentrata su un’eroina priva di limiti, alla ricerca spasmodica e feroce della propria autodeterminazione.
Presentato con successo in vari festival da Toronto a San Sebastian, da Torino a Zurigo, vincitore praticamente di tutti i premi del British Independent FilmAwards del 2017 e scelto come Miglior Rivelazione agli European Film Awards dello stesso anno, il film rivisita il famoso racconto Una Lady Macbeth del distretto di Mcensk del russo Nikolaj Leskov, divenuta opera lirica di successo grazie a Sostakovic e da cui anche il regista polacco Andrzej Wajda trasse nel 1962 il drammatico Lady Macbeth siberiana.
Del testo originale cambia l’ambientazione, ci si sposta dalla Russia zarista all’aperta campagna scozzese, mentre i personaggi restano fedeli in tutto tranne nel finale in cui Leskov prevedeva sorti differenti ed opposte per la coppia colpevole.
Non si tratta solo di una dramma in costume con “amanti terribili”, nemmeno della riproposizione di una novella Madame Bovary o della scandalosa Lady Chatterley; qui si disegna con calibro fin troppo millimetrico una giovane donna indomita in piena lotta sessista, classista e razzista, destinata a prendersi tutto ciò che le aggrada con una tale inconsapevolezza e mancanza di rimorso verso il male da essere disarmante, dunque invincibile.
Scambia sopravvivenza con egoismo: non ha morale, non ha pentimento, non ha perdono. La sua identità femminile scalpita, reclama attenzione e calore all’inizio comprensibili poi eccessivi, iperbolici, fagocitanti, avvelenanti e letali per chi le è accanto.
E’ impossibile restarle vicino. Diventa disumano abbracciarla o baciarla dopo che ha commesso il più atroce degli omicidi: eppure questo è ciò che lei chiede al suo uomo, come un ringraziamento per aver speso tutto quel sangue, come un animale cerca il consimile, come un placebo per l’animo in fibrillazione, la droga che infonde fede cieca nelle sue malefatte imperdonabili. Un’assassina contemporanea sotto le gonne e dentro i corsetti di una composta dama ottocentesca.
Immediato è anche il paragone con la figura teatrale classica cui è accostata Katherine già nel titolo, ossia la Macbeth shakespeariana, regina solitaria dal cuore di pietra, lo spirito fermo, le mani di sangue, più uomo che donna, anomala strega del male capace di manipolare il proprio uomo per raggiungere il potere assoluto e colmare un vuoto indicibile ed intimo; tutto collima, anche se al centro della contesa non c’è una corona, ma un corpo femminile.
E se maggiore spietatezza è possibile immaginare rispetto ai versi del bardo, la ritroviamo nelle gesta di questa ragazza, ai cui occhi nulla sembra troppo grave, un po’ per inconsapevolezza dell’età, un po’ per perversa corsa alla felicità; né le è concesso il balsamo della follia che il drammaturgo inglese concedeva alla sua donna, lasciandola annegare nell’oblio della crudeltà compiuta: Katherine, infatti, resta vigile e lucida, sempre in pieno controllo della situazione, con la risposta ed il comportamento pronto per ogni evenienza, sottile nei modi, sfrenata nelle intenzioni.
Volto migliore probabilmente non poteva essere scelto, per questa antieroina vittoriana, che non resta depressa e malinconica nelle sue cime tempestose, ma si ribella con una brutalità più archetipica che concreta: la giovane Florence Pugh ha il contegno, la distanza, la passione trattenuta di un’adolescente docile ma imprevedibile, finta vittima in un gioco di scacchi e sangue che conduce magistralmente, fino alla fine; dalle dolci forme e dal viso pulito emana ambiguità e glaciale compassione, sorride alla morte, come fosse un gioco, cela un mostro in sé e non gli dà peso, deludendo lo spettatore nel suo desiderio di immedesimazione laddove varca la soglia dell’umanità con un cuor leggero intraducibile e misterioso, facendo emergere la più distruttiva delle amanti, la parte oscura della natura femminile, il castigo matriarcale in cui incorre una società che vive senza rendere conto del rispetto dovuto alle donne e della potenza delle loro pulsioni.
Tanto più smania Katherine con i suoi impeti furiosi, tanto più la regia la castiga nella morsa di busti togli-fiato, sotto gonne ingombranti dai colori sempre più funesti, dentro i corridoi in cui si insiste a camminare sempre nella stessa direzione, in inquadrature ripetute che danno e insieme tolgono tempo ai giorni e speranze all’anima della ragazza; pochi mobili geometricamente arredati e posizionati in un equilibrio perfetto di vuoti e pieni, un eleganza mortale incolore e critica, un quadro fiammingo bellissimo e apatico in cui si respira una pace irreale che prelude l’abbattersi della più rovinosa tempesta.
Così, nonostante il mancato subbuglio viscerale che non tanto le vicende quanto l’artico modo di raccontare manca di provocare nello spettatore, non si smette di ricordare Katherine-Macbeth, seduta sul suo divano, con un vestito dal panneggio perfetto, mani in grembo, volto dritto al muro, occhi infuocati, respiro calmo, adrenalina in vena, in ambigua contemplazione della prossima voluta catastrofe.
Voto Autore: [usr 3,0]