La storia di Jeffrey Dahmer è la nuova serie Netflix che affronta un caso di cronaca molto delicato. Si tratta della storia di Jeffrey Dahmer, serial killer pluriomicida che, nell’arco degli anni Ottanta, è riuscito a mietere diverse vittime nell’ambito di adescamenti sessuali (e non solo).
La sua infanzia difficile viene scandagliata alla perfezione e i dettagli che ne escono fuori è che probabilmente la sua indole non è stata scatenata da qualche tipo di evento traumatico ma è stata una lenta evoluzione verso un generale senso di liberazione dalla repressione alla quale era soggetto.
Al di là di questo fattore, puramente biografico, e lasciando da parte (almeno per il momento) i giudizi tecnici che derivano dalla visione, è bene concentrarsi sulla sfilza di critiche che il prodotto porta con sé. Il girato è ricco di dettagli disturbanti e la qualità è generalmente elevata: la fedeltà agli eventi ha tuttavia riaperto delle ferite che si erano parzialmente chiuse (almeno a livello di stampa).
C’è da fare una premessa: proprio questa cura maniacale del dettaglio genera un indotto scenico decisamente disturbante. Il pathos che si genera ha quindi risvegliato parecchie coscienze, le quali hanno mosso nei confronti de La storia di Jeffrey Dahmer, degli attacchi che potevano essere calcolati benissimo.
Dapprima la famiglia di una delle vittime: il cugino di Erroll Lindsey ha affermato che, a suo modo di vedere, la serie mantiene un approccio decisamente feroce e insensibile nel rappresentare la scena della sorella della vittima che, durante l’udienza di condanna, urla di dolore verso Dahmer per quello che aveva fatto.
La famiglia di Lindsey ha poi statuito che il crime media non deve essere favorito. Un’ altro fattore di critica è stata la decisione di Netflix di associare ai tag pubblicitari (quelli che servono per veicolare il prodotto nel web) la dicitura LGBTQ, come a voler associare La storia di Jeffrey Dahmer a un genere che conta diversi altri esempi di gender equity o di lotta a favore dell’uguaglianza socio-sessuale.
Queste critiche non sembrano assolutamente infondate. Da un punto di vista puramente teorico, una serie su un individuo del genere smuove lo stomaco, e ci mancherebbe. Se si pensa tuttavia al contenuto in sé per sé, già questo può in un certo senso essere considerato frutto dell’uguaglianza che si vuole perseguire. Dipingere su schermo un serial killer omosessuale non significa associare quella mentalità e quel modo di fare a tutto il macrogruppo sociale di riferimento. Viene un po’ da sé pensare che non tutti sono Jeffrey Dahmer e che la maggioranza dei ragazzi dell’epoca non aveva queste perversioni (e malattie mentali).
Pertanto, il risultato è quello di una serie “normale” che tenta di raccontare una storia come tante altre; poco importa l’orientamento sessuale (si tratta pur sempre di un folle omicida). Il racconto passa effettivamente poco attraverso l’esperienza amorosa dello stesso, e prende in considerazione solo e soltanto le sue turbe psichiche.
La serie va certamente a rimpolpare ulteriormente un genere colmo di esempi: la storia di Ted Bundy o Mindhunter sono solo due dei compagni di categoria che la serie su Dahmer ha. Che piaccia o no, il prodotto è comunque riuscito e al di là di qualche svista organizzativa che può infastidire, procedere con grande correttezza verso il racconto di una storia che ha dei connotati differenti dal solito ma che non esula dalle battaglie sociali che giorno dopo giorno si portano avanti (in qualsiasi tipo di segmento socio-antropologico).