Il mio giardino persiano, in concorso per l’Orso d’oro alla scorsa Berlinale, è un film di libertà interiore ed esteriore agite in un cosmo di filo spinato, è un lavoro fatto di piccoli passi calibrati, profondamente dedicati, una piccola storia, per un grande abbraccio che da fuori e da dentro restano ad ingombrare la memoria, mentre il resto dei comuni film, da festival e non, si ammassa e si confonde tra il prevedibile ed il distratto.
Diretto con tatto e contatto dal duo iraniano Maryam Moghaddam e Behtash Sanaeeha, Il mio giardino persiano narra la storia di due persone anziane, la vedova Mahin e il tassista Faramarz, soli nell’Iran moderno, sordo e contraddittorio, che obbliga, censura, lega lingue e corpi alla ragion di stato o meglio alla religion di stato, togliendo linfa vitale ai propri cittadini.
Il mio giardino persiano – Trama
I protagonisti sono due anime che furono vivaci e felici in un altro tempo ma nello stesso paese, paese che adesso pare loro svuotato di senso così come le loro stesse carni, disabituate ad una carezza da troppi dolorosi e silenziosi anni. Mahin (Lily Farhadpour) ha settant’anni, da trenta è vedova, un marito al cimitero, due figli lontani dall’Iran, un visto per uscire dal paese che non arriva mai data la sua età avanzata, una casa che non può lasciare per troppo tempo perché lo stato la requisirebbe, le più care amiche con cui condividere momenti di leggerezza e complicità a diversi chilometri di distanza, un sonno frammentato e latitante che le offre pace solo la mattina.
Attorno a Mahin la vicina di casa integralista con il velo fin sopra gli occhi che conosce tutto di tutti, la polizia morale che tormenta anche le giornate più soleggiate nei parchi pubblici, l’aridità di quattro chiacchiere casuali su tempo e malattie, la nostalgia traditrice di quando erano il rumore dei tacchi e il piacere dei capelli sciolti ad occupare le strade della città, non le camionette dei militari ed i sacchi in cui si devono nascondere donne di ogni età.
Una vedova ed un tassista, soli ed anziani, decidono di innamorarsi
Mahin si sente soffocare in una figura femminile che non riconosce più, appesantita dagli anni e dalla tristezza, convinta di aver perso fascino e grazia, e con cui deve convivere ogni giorno. Il suo animo vorrebbe tornare a volare ed invece si rinchiude in tristi ristoranti che fanno sconti per persone anziane, senza permettersi un guizzo vitale che darebbe scomodamente nell’occhio.
Qui, in uno di questi luoghi anonimi, in cui una donna sola al tavolo desta più chiacchiere che una bomba messa in un parcheggio, Mahin intercetta Faramarz (Esmail Mehrabi), solo anche lui ad un tavolo, mentre il gruppo dei suoi amici mangia assieme poco più in la. E’ un uomo dall’aria gentile, modi educati, sguardo da cane bastonato e/o bastonabile, avventore frequente perché senza mani di moglie che possano provvedere a preparargli da casa un pasto sano, impegnato ad inghiottire qualcosa di commestibile prima di riprendere il proprio turno alla guida di un taxi.
Mahin, per un impeto non spiegato ma necessario, lo punta; decide di non lasciarlo andare; lo segue alla stazione dei taxi, non trovandolo lo aspetta fino a sera, lo richiede come tassista nonostante il suo turno sia finito e lo invita a casa sua per una serata da condividere in due.
Il giardino: simbolo indomito e rigoglioso dell’anima dei protagonisti
Qui, tra uno sguardo al rigoglioso ed indomito giardino di Mahin, una bevuta di vino tenuto nascosto in un’ enorme bottiglia in attesa di festeggiare qualcosa di degno, alla faccia dell’alcool vietato dalle autorità, una musica a volume troppo alto per non essere notato dalla fanatica vicina, si consuma una serata di piccola follia e cura reciproca tra due spiriti mai più stati cosi giovani da cinquant’anni a questa parte.
E la torta preferita delle occasioni speciali, preparata con zelo dall’ottima cuoca Mahin suggella questa specie di amore che come ogni inno alla libertà lanciato oggi in quello stato, non raggiunge il suo bersaglio, ma si inceppa, incastrato beffardamente da qualcosa di terribile, ingiusto, paradossale ed inevitabile.
Il mio giardino persiano – Recensioni
Il mio giardino persiano ha l’interesse di uno slice of life potente e sincero, che fa da metafora ed eco ad una generazione nata prima del rigore della dittatura religiosa, che ha preso parte alle rivolte o alle guerre intestine per fermare le rivoluzioni illegittime, senza riuscire a cambiare il corso degli eventi, e di quegli eventi, ora, è testimone impotente.
Mahin e Faramarz sono due vettori alla ricerca del bello, di un bello che c’è stato e non si rintraccia più, di un’apertura alla vita che non trova oggi la stessa leggerezza né lo stesso spassionato disimpegno. Un’ipoteca sull’autodeterminazione di sé, dei propri corpi, dei propri legami, destini e sentimenti che viene sbattuta in faccia alla quotidianità fatta di repressioni, sussurri, segretezze, impossibilità, veti, minacce e ritorsioni.
Un’ adolescenza primaverile ritrovata, socialmente e politicamente significativa
Due anziani si approcciano e vivono il loro ultimo, grande appuntamento d’amore, e lo fanno come se l’amore davvero non l’avessero mai conosciuto, o fosse disperso da chissà quanto in chissà quale anfratto della memoria, appassito, in oblio permanente. Perché entrambi tornano bambini, rispolverano la disinvoltura e la faccia tosta di una volta, quando si poteva essere e dire ciò che si sentiva, e la paura non c’era.
Mahin e Faramarz danzano, cantano, fanno brindisi, mangiano leccornie, si appoggiano l’uno all’altro, come se volessero sostenersi nella reviviscenza di un tempo sereno che manca da star male. Lei, quella stessa mattina, si è opposta all’arresto di una ragazza accusata di non aver indossato correttamente il velo; lui ha servito nell’esercito rimettendoci profondamente del suo, prima di rinchiudersi in un taxi: l’amore per entrambi è oggetto lontano, insperato, qualcosa di mitico, ma mai dimenticato, che viene rianimato, in un’adolescenza primaverile ritrovata, socialmente e politicamente significativa.
Socialmente perché si offre spazio al contatto fisico di corpi maturi, che hanno diritto a frequentare le gioie amorose oltre gli imbarazzi, le freddezze, le sconvenienze e l’indifferenza che la contemporaneità rivolge loro. Politicamente perché poche cose sono più rivoluzionarie e spregiudicate di una notte d’amore improvvisa tra due anziani conosciuti per caso. Metafora di cuori gonfi e tempi pesanti, che non riescono a trovare equilibrio pacifico.
Piani sequenza dedicati e inquadrature felpate
Le riprese seguono la coppia di beniamini con passo felpato e dedizione costante, dando vita a dinamici piani sequenza tra le mura asimmetriche dell’appartamento, le luci fioche e calde di una nottata proibita, strappata alla morte dell’anima e del corpo, tra i rifelssi scuri ed ambrati si compone un quadro vivente in cui sembra di spiare stralci di un’intimità bambina e libera.
Il giardino indomito, irregolare e stracolmo di piante, alberi e fiori, signoreggia silente, come terzo invitato, detentore imprevisto del crudele segreto finale, simbolo di qualcosa che si batte lasciando il segno, oltre le regole imposte.
Il mio giardino persiano – Cast
Ottimi gli intepreti, dalle presenze sceniche di una verosimiglianza imbarazzante. Mehrabi campione di dolcezza rassegnata, in ascolto prezioso, una stravaganza e fragilità ebbre che lo rendono quasi figura favolistica, non appartenente a questo mondo pesante, la parabola, forse, di come dovrebbe essere la società, come ha scordato di essere, come si spera tornerà ad essere.
Farhadpour è luminosa e forte, nella sua decadenza attiva, ha un sapore di maternità e rinascita familiari, e la capacità di giocare sul limine della serietà, caratteristica di questo piccolo film.
Il mio giardino persiano da un incontro casuale e voluto al tempo stesso, compone una scintilla, che prova a fare luce oltre l’inerzia e la svogliatezza del contemporaneo, come fosse un piano di riscatto verso un destino avaro di comprensione e spazio per le persone più anziane, più isolate e più libere.
A metà strada tra fiamma del passato e monito verso il futuro, Il mio giardino persiano è un film che consegna nelle mani di chi guida ed abita un paese complesso e seducente come quello iraniano una lente d’ingrandimento verso aspetti vitali di ogni essere umano e di ogni popolo al contempo. Tra questi l’amore mancante a qualunque età, la seduzione che diventa questione di vita o di morte e il tentativo di restituire forma libera ad un’intraprendenza fisica e morale allacciata dal regime, intraprendenza possa essere impegnata a vivere senza più domandare permesso.