Il condomino dei cuori infranti è il titolo grossolanamente improprio e scioccamente fuorviante di Asphalte, penultimo lavoro del regista Samuel Benchetrit, ispirato ad alcune delle storie contenute nei tre tomi autobiografici da lui stesso firmati ed intitolati in modo molto suggestivo Cronache dall’asfalto. Presentato in proiezione speciale al Festival di Cannes del 2015, uscito in Italia l’anno successivo, al momento disponibile su Amazon Prime, Il condominio dei cuori infranti è una piccola bomboniera color grigio ciminiera, dall’ironia compostissima, con intelligente tessitura letteraria, che costruisce uno spaccato episodico e surreale pieno di virtù e piccolezze insperate per un’umanità marginale, de-felice e contenta, investita a piombo da qualcosa di cui fortemente manca.
Il condominio dei cuori infranti – trama
Centro d’interesse è un palazzone nella periferia industriale di Parigi, circondato da niente che non sia asfalto, degradato all’esterno, un po’ cadente all’interno, unica nota di vita passatagli accanto le tantissime scritte sui muri e sui pianerottoli da parte di mancati street artists più confusi che talentuosi. Un liceale proietta la figura della madre, spesso assente, sulla nuova vicina, affascinante attrice solitaria, in odore di declino, che riesce a dare un nome alle proprie paure grazie alla spontanea curiosità del giovane nei suoi confronti.
Un’anziana signora marocchina, con il figlio in prigione, si ritrova ad ospitare in casa per pochi giorni un astronauta americano della Nasa piombato dal cielo su una capsula del suo velivolo, disorientato e solo. Ad un uomo non propenso ad aiutare gli altri capita in malasorte una condizione che lo rende totalmente dipendente dal prossimo, in particolare dal volto luminoso e dolce di un’infermiera notturna che vorrebbe evadere dal triste orizzonte della banlieue.
Il condominio dei cuori infranti – recensione
Mescolando elementi veri e parti inventate, Benchetrit realizza una mini antologia di persone sole, in guerra più o meno rumorosa con la propria solitudine, conviventi con una delusione che è fuori dal loro controllo, con una lontananza che sembra non accorciabile o con una parte di sé che hanno sotterrato per sentire meno dolore. Alla madre algerina manca accudire un figlio ed un figlio arriva dal cielo; il giovane dalla mamma fantasma ne trova un’altra dietro lo spioncino della porta, catapultata laggiù chissà da dove; all’uomo che non tendeva mani, capita di doverne cercare tante e di volerne in particolare una.
Tre cadute e tre risalite come le ha definite Benchetrit stesso, che tolgono ferocia alla routine di quei luoghi, ed immaginano tenerezza dove di solito il debole è asfaltato. Così diventa vivibile un nido vuoto, una casa piena di scatoloni, persino una sedia a rotelle: l’altro è misura del nostro significato.
Commuove, fa sorridere e crea un effetto straniante assistere all’umanizzazione della quotidianità randagia di questi confini metropolitani, abbandonati al loro stupefatto grigiore, teche irreali di immobilità singolare e collettiva, dove non ci si aspetta di sentire una voce amica nè di ricevere aiuto di alcun tipo.
Sono spazi quasi giustamente dimenticati da Dio e dagli altri uomini, in cui non è facile attirare l’attenzione, perché tutto sembra possedere lo stesso contorno e, anche senza premere l’acceleratore della descrizione, l’aria che si respira è ferma e viziata.
Fa compagnia a questa piccola umanità interrotta in un punto preciso delle rispettive parabole, un sibilo di vento che interrompe i dialoghi e che ciascuno interpreta come vuole, un angelo, un demonio, il pianto di un bambino, il lamento di qualcuno, dolore, minaccia, segnale d’amore, una presenza che partecipa al vuoto dei personaggi, una divinità che assiste senza intervenire ed ogni tanto ricorda di esserci, emettendo un suono sinistro e fatato.
Inquadrature essenziali, riprese elementari, disegnano quadri spogli e densi di una piccola, garbata, favola sociale ed urbana, in cui i cuori infranti del titolo attraggono le suture delle proprie fratture e da esse sono, a loro volta, attratti, geometricamente e volontaristicamente.
C’è persino l’influenza del cinema nel microcosmo simbolico che nutre il condominio, e che prevede ed estroietta con la sua perizia maieutica i tasti dolenti di alcuni caratteri, restituendo loro lo specchio di ciò che li aspetta o di ciò che li accompagna: per l’ attrice impegnata in un selftape, la registrazione esalta amaramente l’età della gioventù andata e con essa il rimpianto di non aver avuto o saputo tenersi accanto qualcosa o qualcuno appartenente al cuore; per l’uomo in carrozzella una scena de I Ponti di Madison County fa da oracolo al sentimento che gli scateneranno un viso e ad una voce irresistibilmente fragili e preziosi, oltre a suggerirgli una non casuale passione per la fotografia che gli si rivelerà utile.
Il condominio dei cuori infranti – cast
Ad impreziosire il condominio dei cuori infranti le interpretazioni di un cast nutrito di volti fuori dal tempo, che disegnano simmetrie ed asimmetrie nell’atmosfera sospesa ed apatica che li circonda, con una precisione ed una bellezza che sembrano irreali per quegli ambienti.
Così Isabelle Huppert, l’attrice magnetica in debito di nuova gloria si accascia sul pianerottolo sporco dopo una sbronza che sa di sconfitta, con la grazia severa del sua intraducibile adolescenza fisica, mentre Valeria Bruni Tedeschi, appare come infermiera infagottata, con lo sguardo incerto e rivolto al cielo, a chiedere un’altrove ai suoi giorni monotoni e silenziosi, una comprensione che nemmeno lei sa spiegare.
Jules Benchetrit ha l’intelligenza adulta, lo sguardo tagliente ed una presenza fisica obliqua, ben oltre la normalità di un liceale comune, mentre Michael Pitt è l’uomo venuto dallo spazio, dagli occhi liquidi e buoni, che parla un’altra lingua, comico suo malgrado in un mondo lontano dal suo, alieno tra alieni.
Guida il cerchio Gustave Kervern, ovvero Sternkowitz, l’uomo in carrozzella: lui ingombra l’aria di capelli elettrici, che ribellano il suo profilo ad ogni logica tranquilla, rendendolo una maschera tragicomica a suo modo straziante.
Sono tutti protagonisti di una favola struggente, che semina speranza a piccoli, cocciutissimi morsi, a volte risolta brillantemente, a volte con indulgenza, ma nutrita alla base da un umorismo che permette la digestione cronica della vita. Mentre si allarga l’inquadratura finale in questo inferno interdetto color nebbia, tutti i nasi sono rivolti all’insù a scrutare se dall’alto e verso l’alto torni o arrivi un segnale di senso anche per loro: a volte la vita è tutta qui.
Spiace per chi vi cerca ostinatamente altro, attribuendogli missioni mancate: il condominio dei cuori infranti ha il brutto vizio di fare poco chiasso e quindi di non essere, per alcuni, abbastanza. Abbastanza cosa o abbastanza per cosa, poi, va ancora chiarito.