I migliori film del decennio 1990-1999 scelti dalla redazione di MovieMag
La redazione di MovieMag ha stilato una lista dei migliori film del decennio 1990-1999 (qui trovate quella dei migliori film del decennio 2000-2009).
Come le precedenti, questa lista non si pone l’obiettivo di stilare una classifica ma come una selezione delle opere che hanno caratterizzato o rivoluzionato questo decennio ricchissimo, che ha portato alla luce o perfezionato notevoli registi come: Quentin Tarantino, Krzysztof Kieślowski, Paul Thomas Anderson, David Fincher, Steven Spielberg, Sam Mendes, Takeshi Kitano, ecc.
Un decennio pregno di capolavori indimenticabili, piccole perle e cult da vedere e rivedere. Per questo motivo abbiamo deciso di elencare non i soliti 30 titoli ma, in questo caso specifico, abbiamo esteso la lista a ben 40 titoli che rappresentano i migliori film del decennio 1990-1999 .
Di seguito trovate la lista delle pellicole scelte dalla Redazione di MovieMag, inserite in ordine assolutamente casuale.
I migliori film del decennio 1990-1999 lista:
– Pulp Fiction (1994)
Storie di ordinaria delinquenza, sovrapposte, intrecciate, riviste con sarcasmo e ironia dall’enfant prodige Quentin Tarantino.
Non ancora trentenne e con alle spalle un solo film, Le iene, rimbalzato dai piccoli festival autoriali e diventato subito un cult, Quentin Tarantino si guadagna con Pulp Fiction il titolo di genio creando un film capolavoro. Sorretto da una sceneggiatura straordinaria per ritmo, tensione e dilatazione drammatica, con dialoghi lunghissimi, divertenti e paradossali, sulla globalizzazione dei McDonald’s, l’erotismo del piercing o l’importanza dei massaggi ai piedi, Pulp Fiction vive del pure piacere di raccontare. Ma anche di far lavorare attori-complici, usati fuori dai loro stereotipi.
Una pellicola che ha segnato in calce gli anni ’90 elevandosi per originalità ed estetica. Un gioiello che segnerà inevitabilmente il Cinema contemporaneo trascinaldolo nel nuovo millennio.
– Gli Spietati (1992)
La certezza è una sola. Il tentativo di conferire a Gli Spietati una personalità ben marcata e distinta è perfettamente riuscito. Il capolavoro di Clint Eastwood setta nuovi standard per il genere Western, contestualizzando la violenza e donando spessore e profondità ai tanti elementi spesso sottovalutati.
Alle soglie del duemila, il mito del West crolla sotto i colpi di William Munny. Via l’onore. Via i valori. Perchè alla fine, ciò che resta a terra poco dopo l’ennesimo sparo, non è altro che sangue mischiato col buio.
– Fight Club (1999)
Fight Club è un film cult, diretti magistralmente da David Fincher, venerato da intere generazioni di spettatori. Narrativamente perfetto e visivamente intenso ha raccontato i combattimenti feroci di un’umanità che non si arrende alla forza annichilente del consumismo sfrenato, nemmeno a battaglia persa. Una resa dei conti con il XX secolo disperata e audacemente ironica, che lascia a petto nudo in un losco scantinato la solitudine dell’uomo contemporaneo, impotente contro la droga pacificante del consumismo. Un capolavoro di metacinema, suggestione, regia e interpretazione, da rivedere un numero incalcolabile di volte.
– Seven (1995)
Il male tocca tutti, anche chi deve o vuole tenersene lontano; è vicino e agisce insospettabile; cresce banale e naturale tra gli esseri viventi che ci convivono senza farne più sensazione, ne sono parte attiva e insieme soccombente. Lucidità ed impulso lottano in una città anonima, corrotta, decadente, che perde pezzi senza accorgersene, macina solitudini, segreti tossici e sentimenti negativi, collassa nelle sue ombre caravaggesche, nella sporcizia interiore ed esteriore, mentre dal cielo piove senza pietà costantemente e nulla si pulisce. Seven vive qui. Thriller divenuto cult che ha collocato il perfezionista David Fincher, allora trentatreenne, nel novero dei registi da seguire. Cast impeccabile e fortunato, sceneggiatura seducente che svecchia la prevedibile struttura con un montaggio pregevole e citazioni bibliche e letterarie ad ispessire l’enigma esistenziale/criminale. Un film imperdibile del suo genere.
– Il silenzio degli innocenti (1991)
Diretto e interpretato con lucida intelligenza Il silenzio degli innocenti, diretto da Jonathan Demme, è un thriller claustrofobico, crudele e angosciante, che ha fatto di uno psichiatra pazzo e cannibale, interpretato da un memorabile Anthony Hopkins, un personaggio amato in tutto il mondo. Ma soprattutto una pietra miliare del genere (insieme a “Seven” di David Fincher) che fa da spartiacque tra il thriller/giallo degli anni 70/80 e quello a tinte scure e fortemente psicologico degli anni ’90 e a seguire. Un capolavoro assoluto che da trent’anni guarda dall’alto tutti i serial-thriller.
– Le Iene – Reservoir Dogs (1992)
Le Iene (Reservoir Dogs), l’esordio registico di Quentin Tarantino, arriva come un fulmine a ciel sereno, spiazza il pubblico e la critica di mezzo mondo diventando da subito un instant cult, ancora oggi venerato da un’intera generazione.
Nasce così il primo successo di Tarantino, “Reservoir Dogs” (da noi “Le Iene” o “Cani da rapina”), supportato da un cast fantastico. Harvey Keitel crede così tanto nella storia da coprodurre il film ed interpretare il ruolo seminale di Mr. White, gli altri criminali, Tim Roth, Chris Penn, lo stesso Tarantino, sono tutti in parte, tanto da far dichiarare a Quentin “Ad ogni nuovo film che metto in cantiere, spero sempre di ritrovare la stessa energia con la quale realizzammo Reservoir Dogs ”. Menzione speciale per l’ultima “Iena”, Eddie Bunker, la cui vita e opere letterarie sono il vero humus dal quale hanno origine la storia e il mood del film.
Fin da subito è chiaro l’intento di Tarantino di mirare in alto, e sin dal principio noi spettatori ci troviamo invischiati nel progetto meta cinematografico dell’autore: basti pensare alla sequenza nella quale Tim Roth, l’infiltrato della polizia, impara a memoria il copione, provando le battute, immedesimandosi nel personaggio e nelle situazioni, riuscendovi così bene da non riuscire più ad uscirne, come è capitato ad attori che hanno affrontato parti emotivamente intense.
In questo capolavoro noir c’è già tutto Tarantino: sangue, pistole, vezzi (i portabagagli delle auto), la poetica dell’amicizia virile, il sacrificio, la droga, quella sotto la quale le Iene discutono di argomenti ameni , come le canzoni di Madonna, andando a comporre l’altra cifra stilistica, quella dello scrittore Quentin, elaboratore di dialoghi taglienti come lame di rasoio. Una pellicola imprescindibile che scuote gli anni Novanta rivelando al mondo il genio di Quentin Tarantino e che rientra di diritto tra i migliori film del decennio 1990-1999.
– Quei bravi ragazzi (1990)
Quei bravi ragazzi è un film senza soluzione di continuità. E’ l’epopea criminale della manovalanza mafiosa, tra massacri d’insensata violenza a quotidiani riti famigliari, filtrata dall’occhio magistrale e turbinoso del maestro Martin Scorsese.
Sequenze di purismo, assoluto virtuosismo e interpreti da capogiro (Joe Pesci sarà Oscar come miglior attore non protagonista).
Abbandonati i toni drammatici di film affini come Il Padrino, la pellicola indossa per larghi tratti i panni di una vera e propria celebrazione, talvolta rude, talvolta fine, di tutto ciò che striscia tra le maglie inermi della legge. Vincitore del Leone d’argento a Venezia, il capolavoro di Martin Scorsese verrà prima studiato, poi compreso ed infine imitato dalle future generazione di cineasti.
– I Soliti Sospetti (1995)
Chi è Kaiser Soze? E’ lui o non è lui a guidare indirettamente i colpi messi a segno da un gruppo di cinque criminali ritrovatisi insieme durante un confronto all’americana? E perché li ha presi di mira? “Verbal” Kint, è davvero uno di loro? E cosa sta raccontando alla polizia doganale?
Narrazione a scatole cinesi per un thriller gioiellino, che frantuma verità, rimescola carte e bara: si avvita su se stesso gettando polvere negli occhi fino all’ultimo fotogramma. La voce narrante non contiene la visione complessiva, mentre ripercorre da piedi a capo una storia che non c’è, tra invenzioni, flashback e depistaggi. Oscar alla migliore sceneggiatura originale per Christopher McQuarrie e al miglior attore non-protagonista, Kevin Spacey. Nel più noto successo di Bryan Singer vige il sottinteso: non temere le conseguenze delle malefatte, tanto a cadere saranno “i soliti sospetti”. D’altronde il più grande merito del male è passare inosservato.
– Matrix (1999)
Matrix, diretto dai fratelli Andy e Larry Wachowski, è stato il più grande successo del 1999, un vero e proprio scoppio di cyber fantascienza di effetti visivi strabilianti con una narrazione avanzata.
È l’ibrido definitivo di magia tecnica ed eccellenza contestuale e, indubbiamente, rimane tutt’oggi un capolavoro, un pilastro e un punto di riferimento per tutti i film di fantascienza, trascinando nel millennio nuova linfa vitale. In assoluto tra i migliori film del decennio 1990-1999.
– Le ali della Libertà (1994)
Ogni dramma carcerario ha come punto centrale la libertà. Le Ali della Libertà di Frank Darabont non fa eccezione, riuscendo però a distinguersi grazie ad un’emotività decisamente più spiccata.
L’aspetto umano dei personaggi non si limita al loro ricongiungimento con l’esterno. Si concentra piuttosto sull’idea di cattività, sul senso di un’esistenza a parte vissuta in galera. In fondo, lenta come un sussurro e potente come un macigno, sarà questa la domanda che più di tutte rimarrà sospesa.
È possibile diventare dipendenti dalla prigione, tanto da non riuscire più a vivere fuori? Un capolavoro che ha segnato gli anni ’90. Tra i migliori film del decennio 1990-1999.
– Il Grande Lebowski (1997)
Con Il grande Lebowski i fratelli Coen alzano l’asticella portando in scena un cult indimenticabile.
Un reduce del movimento hippy in un noir anni Quaranta coi colori sgargianti e il gusto coreografico di un musical dei tempi d’oro.
Mescolando abilmente generi, ironia e nostalgia, i ribaldi fratelli Coen firmano un eccentrico elogio dell’indolenza e della lentezza, trasformando il bowling in filosofia e Drugo Lebowski, un magnifico Jeff Bridges, in un’icona per tutti quelli che credono ancora nella resistenza a oltranza all’idiozia del Sistema.
– Lanterne Rosse (1991)
Lanterne Rosse, insieme a Ju Dou, è il film che impose in Occidente il cinema rituale, politico e alieno del più importante regista cinese contemporaneo, Zhang Yimou.
Una giovane concubina non riesce ad accettare le leggi sessuali e sociali che regolano il matrimonio. La storia è ambientata negli anni Venti, ma si allude all’imperturbabilità del potere, dell’immobilità sociale e al maschilismo nella Cina di sempre.
Leone d’argento a Venezia, Lanterne Rosse è una pellicola cardine della cinematografia orientale degli ultimi quarant’anni. Impossibile non inserirlo tra I migliori film del decennio 1990-1999.
– The Truman Show (1998)
Cosa succederebbe se fossimo realmente osservati, non solo per un momento, ma per tutta la vita, e tutti gli altri sul pianeta ci guardassero? Questo concetto prende vita in The Truman Show diretto da Peter Weir.
Il film è il miglior esempio di ironia drammatica, in cui il pubblico sa qualcosa che il personaggio non sa.
Stimolante, inventivo, creativo e ben realizzato.
Nella maggior parte delle scene del film, la prospettiva del pubblico passa attraverso una delle telecamere nascoste dello spettacolo. Questo non è solo un modo sottile per ricordare al pubblico l’artificio e la manipolazione, ma anche un metodo creativo per aggiungere eccitazione e intrigo ad un film che ha riscaldato il cuore di tutti gli spettatori, fino all’incredibile finale che regala emozioni.
– La Sottile Linea Rossa (1998)
Un verso di Kipling ed un’espressione coniata su campo ad indicare eroi sul fronte disposti a sangue freddo ne La Sottile Linea Rossa di difesa, mantenimento, attacco.
Dopo vent’anni di pausa, il terzo lungometraggio di Malik, Orso d’oro a Berlino, è una profonda elegia, intima ed universale, sul senso della vita, sulla brutalità della natura, sul ruolo dell’uomo in essa, distruttore, osservatore e vittima. Spunto sono i fucilieri inviati nel 1942 sull’isola di Guadalcanal a stanare una base di aviazione giapponese, presidio strategico nell’avanzata nemica sul Pacifico.
La guerra è grimaldello perfetto per spalancarsi all’esistenzialismo del regista. I puntini rossi davanti alla morte sono un cast variegato di grandi nomi che vagano tra navi, sentieri e foreste: ognuno percorre mentalmente riflessioni personali e filosofiche dettate dallo stordimento dell’esperienza bellica e dall’incontro-scontro con la natura esotica. Alternanza poetica di monologhi interiori e azioni militari efficacissime: Zimmer accompagna musicalmente il terribile stupor-mundi.
– American History X (1998)
Derek un orfano diventato leader neonazista, omicida redentosi in carcere, deve salvare dalla sua stessa cattiva strada Danny, il fratello minore che lo ha preso a modello. Pregiudizi e colpe dei padri ricadono sui figli, contaminano fratelli, senza poter evitare l’inevitabile. Il dramma del razzismo, piaga inestinguibile del substrato americano, in un racconto caldo e fatale, in cui la contestualizzazione sociale ed umana svuota di senso l’ideologia dell’odio e le sue apologie. Ubris / nemesis nella fenomenologia del male tra bianco-e-nero dello ieri criminale e colore dell’oggi solidale e riflessivo. Da una storia parzialmente vera, American History X è il debutto registico di Tony Kaye ed inscena le origini contemporanee della violenza e dell’intolleranza etnica: dove prospera, come si nutre, quali gli antidoti con cui disintossicarsi. La paura genera dei mostri. Molti di più la miseria. Troppi l’ignoranza. Memorabile stilema-umano lo skinhead Edward Norton, involucro di tatuaggi, rabbia e pentimento.
– Trainspotting (1996)
Chi sceglie la vita se hai l’eroina? Mark e i suoi amici, da Edinburgo, con l’ago in vena, l’alcool facile e il pugno allegro, fissano i treni (trains-potting) per passare il tempo, dopo aver trascorso la giornata a fare l’unica cosa che li appassiona: cercare una dose. Dal romanzo di Irvine Welsh, l’acclamata e scandalizzante rivisitazione di Danny Boyle scolpisce l’immaginazione generazionale degli anni ’90 ritraendola in quattro giovanotti sconvolti dall’uso di stupefacenti.
Film grottesco e caustico, disturbante e surreale, privo di confort-zone, acido, impressivo ed ironico come pochi. Trainspotting affonda nella dipendenza ma punta il dito altrove: figli allo sbaraglio e punti di riferimento assenti. Cessi più sporchi del mondo, bimbi che gattonano su soffitti, pinte che volano nei pub, sguardi e fisici allucinati, forti tracce di maestri (Kubrick/Arancia meccanica), colonna sonora iconica (da Lou Reed a Iggy Pop). Un Ewan McGregor allampanato lancia qui la sua carriera internazionale.
– Balla coi Lupi (1990)
Balla coi lupi insieme a Gli Spietati riportò negli anni ’90 linfa vitale al genere western. Dall’opera di Michael Blake, un’epopea di formazione, utopica antibellica, antirazzista che denuncia la brutalità di ogni conflitto e della prevaricazione etnica.
1836-guerra di secessione: un tenente gravemente ferito non riesce a darsi la morte sul campo e viene isolato ad Ovest in un fortino dimenticato; qui diventa amico di un lupo e di una banda Sioux di cui conquista progressivamente fiducia e modi di vivere. Rispetto del territorio, abiura della violenza, apertura a nuove genti, culture ed ideali, in una raffigurazione epica, romantica, anche troppo stigmatizzata che inneggia all’integrazione. Condanna dell’ America che coartava lo schiavismo e trucidava fratelli e stranieri per centimetri di frontiera. Kevin Costner dirige, interpreta e coproduce uno film eroico, trascinante, con sequenze complesse e spettacolari, panorami maestosi rosseggianti di tramonti e deserti. Un tour-de-force identitario che valse sette Oscar.
– Forrest Gump (1994)
Dal romanzo di Winston Groome, Forrest Gump di Robert Zemeckis (6 premi Oscar), può essere riassunto da un lato come “l’importanza della leggerezza nell’affrontare la vita e le difficoltà” e dall’altro il fondamentale valore dell’autostima.
Il pregiudizio, la malattia, i preconcetti, la liberazione sessuale e le sue negative conseguenze, i conflitti razziali: tante le tematiche affrontate dal film di Zemeckis che diventerà, dalla sua uscita, punto fermo della cinematografia contemporanea.
La rappresentazione della vita come una scatola di cioccolatini.
– Film Rosso (1994)
Capitolo finale della celeberrima trilogia firmata Kieslowski, ultimo film prima della sua scomparsa. Terzo atto del progetto dedicato ai colori della Francia e al motto rivoluzionario libertè/Film blu, egualitè/Film bianco, fraternitè/Film rosso, quest’ultimo il più filosofico e simbolico dei tre. Valentine, giovane modella, investe un cane che scopre appartenere a Joseph (perfetto Trintignant), giudice taciturno, solitario, dallo sguardo tagliente, che spia le vite degli altri con un apparecchio telefonico: i due iniziano un rapporto di dialoghi e confessioni che contamina le reciproche prospettive. Non tutto il male deve venire per nuocere. A questo serve il caso: disinnesca il destino, permette l’incontro; è espressione metafisica del bisogno irrimandabile, è l’energia dell’ abbraccio, della parola, della chance che si vuole e che sfugge. Chiasmi, rimandi di immagini, rossi ambientali e passionali, visioni, pre-visioni, sovrapposizioni: un film-osanna internazionale, delicato e magnetico, che racchiude gli altri due e li salva dal dolore della vita
– Leon (1994)
Il killer micidiale che non sapeva leggere ed imparò ad amare e l’undicenne disperata che chiedeva aiuto ed imparò a sparare. Leon e Mathilda: due solitudini implose nel dolore che si incontrano e si sostengono, un’ attrazione inedita che destabilizza i ruoli, palpabile, ma platonica, il restare a galla mantenendo la tenerezza nelle acque scalmanate di un thriller d’azione spettacolare. Tra psicologia e bagni di sangue, Besson, alla prima prova in terra americana, dopo il boom di Nikita, non cambia terreno ma modifica l’ingrediente umano aumentandone le dosi: alterna fumetto e sentimento, stilizza sagome, suggerisce l’amore e scatena il suo inferno di violenza. Successo popolare internazionale, con la Portman alla sua prima apparizione problematicamente iconica, Oldman poliziotto dai nervi scatenati e Reno eroe sbagliato.
– Magnolia (1999)
Esercizio di apocalisse. Paul Thomas Anderson al suo terzo lungometraggio, scrive, dirige e coproduce con lampante coraggio ed ottima tecnica di macchina una sinfonia umana in bilico sull’abisso, che carbura con studiatissima progressione verso la temperatura critica di non ritorno.
Nove storie, nove tragic-flaw, nove colpe in fibrillazione, un solo filo ad unirle tutte in modo feroce, ridicolo e puntuale. Un crudele incrocio di coincidenze. Morire, non voler sopravvivere, implodere, esplodere, fingere, prevaricare: scegliti un dolore, lasciati abitare, la vita è un ellisse emotivo, la distanza tra poli praticamente non esiste. Magnolia è una cavalcata musicale che punta dritta al climax: unico break intonato da tutti, il ritornello “It’s-not-going-to-stop” firmato da Aimee Mann. Se la misura è colma ben vengano schianti di rane dal cielo a nettare il male del mondo: il maestro Altman approva. Difficile architettare una coralità in modo migliore. Cast in eccellenza recitativa; Orso d’oro a Berlino.50.
– Qualcosa è cambiato (1997)
Melvin re dei romanzi rosa, è un ossessivo-compulsivo, razzista e sessista; ha per vicino di casa Simon, pittore gay finito in ospedale per un’aggressione omofoba e mangia sempre nel locale di Carol graziosa cameriera con un figlio malato. Diventa amico del primo e innamorato perso della seconda, nonostante il suo carattere impossibile. Fortunata rom-com, dal passo solido soprattutto in sede di presentazione dei personaggi: fa della diversità e di certa emarginazione il grimaldello per smuovere in positivo le situazioni, servendosi di dialoghi buffi ed amari, che si permettono intelligenti cattiverie, in tempi e con modi ancora non sospetti.
Qualcosa è cambiato allude alle interferenze nell’anonima infelicità dei vari protagonisti che tornano a credere nell’altro e ad assaporare un po’ di insperata dolcezza dalla vita. Gigione al guinzaglio Jack Nicholson a suo agio con le piccole-grandi schizofrenie umane, delicata e risoluta la Hunt sua spalla: Oscar come migliori attori protagonisti.
– La leggenda del Pianista sull’oceano (1998)
Novecento, trovato neonato il primo gennaio del 1900 sul transatlantico Virginian, è cresciuto su quella stessa nave senza mai mettere piede a terra. Scoperto un incredibile talento per il pianoforte, lo suona per i passeggeri, per l’equipaggio e per sè, con fenomenale abilità. Dall’abusato monologo baricchiano, con la colonna sonora di Morricone (premiato ai Golden Globe), Tornatore amplia una storia emozionante e poetica, che incanta per tatto e visionarietà, dilaga a tratti nella maniera e nella durata e si fa metafora. Un’oblò come osservatorio protetto del/dal mondo, la musica unico linguaggio possibile contro il terrore dell’ignoto, il silenzio del mare a smorzare angosce ataviche, l’isolamento come condizione naturale dell’arte, che trova ragione solo se abita un limbo.
Tim Roth è La leggenda del Pianista sull’oceano: elegante, taciturno, composto, predestinato alla fine, interagisce prima con le note, poi con le parole; nel commovente monologo finale, lo scrigno del suo fragile segreto.
– Fargo (1996)
Fargo ovvero l’insostenibilie leggerezza dell’imbecillità criminale. E non solo. Oppresso dai debiti, a corto di liquidi, Jerry Lundegaard organizza il finto rapimento dell’ignara moglie per chiedere un lauto riscatto al ricchissimo suocero; i due delinquenti chiamati all’impresa sbagliano tutto, il piano finisce in un tragico disastro: indaga Marge poliziotta incinta di sette mesi, circostanza questa alquanto originale. Un mondo di balordi distratti ed ottusi, bestie coi paraocchi sguinzagliate in caccia della preda nel Minnesota innevato, tabula-rasa bianca assoluta, specchio dei cervelli coinvolti nelle vicende.
Da un fatto di cronaca, i fratelli Coen traggono un thriller più mansueto rispetto ai loro inizi, ma non meno efficace, con taglio realistico, ma epidermicamente caricaturale, a metà strada tra ridicolo ed immedesimazione, che pur nell’apparente classicità è macchiato generosamente da macabra ironia ed apatia spietata.
Una società di ebeti obnubilati dal denaro, uccisi dalla propria mediocrità. Oscar alla sceneggiatura e alla McDormand miglior attrice.
– Il Sesto Senso (1999)
Il bambino che vedeva la gente morta e lo psicologo che voleva curarlo. Redenzioni d’anime e riscatti fisici, bullismo infantile e compromessi con le paure, solitudini consapevoli e non consapevoli, un’universale mancanza di ascolto.
M. Night Shyamalan plasma un horror psicologico diventato quasi format per gli emuli appassionati. Campione d’incassi, scritto e diretto senza dispendio di effetti speciali, note splatter, forze o creature extra-ordinarie, con un montage che solletica l’attenzione critica dello spettatore ed un plot twist finale entrato negli archetipi del genere. La prospettiva ad altezza-bambino vince e coinvolge, amplificando l’impotenza e la suggestione delle visioni; Il Sesto Senso gioca in quel limbo del detto-non-detto e del plausibile che risiede nell’alfabeto enigmatico dell’infanzia, qui accostata con gentilezza e rispetto.
Willis e Joel Osment poli opposti di una calamita in equilibrio tra misurare distanze ed abbandonarsi al reciproco appoggio. Splendida prova anche per Toni Colette, fiera madre coraggio del protagonista.
– Jackie Brown (1997)
Dopo il successo mondiale di Pulp Fiction (1994), Quentin Tarantino è ormai un nome affermato, venerato e allo stesso tempo odiato, soprattutto da chi non sopporta i suoi dialoghi estenuanti e logorroici, che per altri però sono puro piacere e divertimento. Passano tre anni (1997), qualche guaio con la giustizia e altre collaborazioni, prima di arrivare a Jackie Brown, il film che decreta ineluttabilmente la statura registica del ragazzo del Tennessee, e che da subito si rivela una pellicola di enorme spessore, ispirazione diretta del romanzo di Elmore Leonard Rum Punch, tratteggiando una nuova cifra stilistica dell’autore che con questo film cresce (si evolve) come regista. Troviamo sequenze in stile De Palma mai osate nei precendenti film (si pensi per tutte alla scena all’interno del Centro Commerciale), battute al fulmicotone, personaggi che blaterano del nulla (titoli di dischi, trapianto dei capelli, modelli di armi da guerra, allarmi per auto, ecc.), e la nuda disperazione negli occhi di Pam Grier, la Jackie Brown del titolo, epigono dell’eroina Foxie Brown dei Settanta interpretata dalla stessa Grier.
Tarantino immerge anche questa storia nel suo mondo feticcio, lascia Samuel Jackson come icona sarcastica e logorroica, così come Pam Grier, mentre ricrea un’altra icona, quel Robert de Niro interprete di fantastici criminali da storia del cinema, ridotto a macchietta dal peso degli anni, carcerato consumato, incapace di mantenere la concentrazione per più di dieci secondi, come un Vincent Vega che non ce l’ha fatta, diretto verso lo stesso destino del suo predecessore.
Jackie Brown è un film splendidamente scritto, diretto, montato e recitato, tra le migliori pellicole di Jerome ed in generale dei succolenti anni Novanta.
– I ponti di Madison County (1995)
Ispirato al romanzo di James Weller, una storia d’amore struggente, dall’altissimo impatto immedesimante. Francesca, casalinga sposata d’origine italiana che ha azzittito l’infelicità domestica nella monotona routine, e Robert, free-lance della macchina fotografica di passaggio tra I Ponti di Madison County, uniti per quattro giorni teneri, travolgenti, trascritti su inediti diari. Eastwood smette di fare il cowboy e si innamora, mostrandosi nudo di fronte al sentimento: dirige ed interpreta un melodramma emotivamente denso, con classe ed essenzialità, dimostrando commovente umanità, affidando se stesso e lo script al mostro sacro Meryl Streep. Entrambi sono una coppia alchemica che attraversa indenne l’imbarazzo della carne e restituisce il battito di cuori non-più-giovani tornati ad attrarsi. Enorme successo di pubblico, trans-generazionale, tra i migliori film del decennio 1990/1999 del cinema romantico. Sempre lancinante l’inquadratura sulla portiera della macchina quando sotto la pioggia, nel breve cambio-luce di un semaforo, lei deve decidere: con lui o senza.
– Schindler’s List (1993)
Illuminato di un limpido bianco e nero, dall’abile mano del direttore della fotografia Janusz Kaminski, che ha il nitore delle lacrime Shindler’s List è il film-verità di Steven Spielberg sulla mostruosa tragedia dell’Olocausto e sull’industriale tedesco che rischiò tutto per proteggere i “suoi” ebrei.
Straziante e profondo come una preghiera, un film che è lezione di storia e di civiltà, anche grazie ai Giganteschi interpreti e una cura maniacale nel riprodurre su schermo, e di riflesso sul pubblico, ogni singola emozione. Anche a costo di un cappottino rosso immerso nel grigio, complici le strazianti partiture musicali di John Williams sempre pronto a scuotere nel profondo lo spettatore più sprovveduto.
– American Beauty (1999)
La disfunzionalità del perbenismo americano e dell’istituzione familiare che lo alimenta, l’attrito pneumatico tra essere e voler-essere, l’egotismo tossico ed anaffettivo della società delle villette-a-schiera, la crisi dell’utopia d’oltreoceano e dei concetti di padre e bellezza.
L’American Beauty raccontata attraverso l’ultimo periodo di vita di Lester Burnham, quarantenne in affanno sul lavoro e nella vita domestica, innamoratosi segretamente di una compagna liceale della figlia e deciso per questo a rivoluzionare completamente se stesso.
Mito di lolita, rimossi omosessuali, verginità segrete e bilanci catastrofici di mezza età: un climax parossistico che svuota di senso i clichè goniometrici borghesi, ridicolizzandoli e destabilizzandoli. Salvifica l’intuizione di montaggio che colloca il racconto dell’eroe post-mortem, con la sua voce fuoricampo a scandire le tappe della china drammatica che lo attende. Debutto cinematografico folgorante per Sam Mendes; cinque Oscar vinti, Kevin Spacey è miglior attore. Consegnata alla storia Mena Suvari nuda tra i petali di rosa
– Dracula di Bram Stoker (1992)
Con Dracula di Bram Stocker, il genio artigianale di Coppola firma una rivisitazione stupefacente e barocca dell’omonimo topos letterario: il principe che rinnegò Dio votandosi all’eternità, per un amore ferito a morte dalla menzogna umana. Colui che si impadronì dell’immortalità e la disprezzò chiedendone grazia, rinasce in un melodramma orrorifico e visionario, dipanato fuori dalle iconiche forme del mito vampiresco, grondante musiche lussuose, solo parzialmente fedele al romanzo d’ispirazione.
Dracula cavalier servente, anziano in kimono e parrucca settecentesca, dandy londinese con cilindro, creatura notturna, proteiforme e zoomorfa, seduttore e dissanguatore, è un totem effimero, camaleontico e crepuscolare, proprio come certa dinamica cinematografica di cui Coppola presagiva le ceneri.
Un’epopea audace, seduttiva, ricolma di dettagli, che salta nel tempo, sfuggendo all’antico e proiettandosi nel futuro. Effetti speciali home-made ed enfasi fotografica sorretta da un cast di attori trans-generazionali, amatissimi da platee di ogni età; Oscar per trucco, costumi ed effetti speciali.
– Hana-Bi (1997)
Hana-bi la storia del dolente amore di un uomo e di sua moglie malata terminale e di un viaggio intrapreso per salutare la vita. Ma è anche la storia di un feroce regolamento di conti con una banda yakuza, di coloratissimi fiori dipinti su tela, e di un aquilone incoraggiato dal vento su di una spiaggia del Giappone.
Il film che regalò a Takeshi Kitano il Leone d’oro al Festival di Venezia. Impossibile non inserirlo nella lista dei migliori film del decennio 1990-1999.
– Casinò (1995)
Sam Rothstein detto Asso sale su una cadillac, l’auto esplode, il corpo vola, riatterra, Passione di Bach in sottofondo, titoli di testa: l’inizio di Casinò è un biglietto-da-visita della Las Vegas anni ’70, una fiammata impressionante, ipnotica e devastatrice.
Scorsese torna al mondo e a parte del team di Quei bravi ragazzi (De Niro, Joe Pesci, lo sceneggiatore Nicholas Pileggi) e da una reale autobiografia racconta la storia di Sam, giocatore d’azzardo formidabile, scelto dalla mafia per guidare nella città-del-gioco il casinò Tangiers, costretto a destreggiarsi tra una moglie tossicodipendente e truffatrice (Sharon Stone), ed un gangster incontrollabile affiancatogli dal clan.
Flashback, voice-over, ralenty, fermi-immagine, tavoli verdi, gettiti di violenza al dettaglio per un’opera iperbolica, feroce, manovrata a nervi tesissimi, con digressioni e sterzate in carreggiata, debordante come la passione patologica per l’azzardo: schianta il mondo criminale di settore rendendo Las Vegas una valvola di sfogo del capitalismo a stelle-e-strisce.
– Nel nome del padre (1993)
1974, drammatica esplosione in un pub di Guildford, Inghilterra: sono accusati ingiustamente quattro giovani hippy irlandesi ed alcuni loro parenti. Condannati all’ergastolo come terroristi in un processo manovrato, padre e figlio si ritrovano in prigione, vicini dopo anni di incomprensioni; il primo muore durante la detenzione, il secondo, aiutato da un’ostinata legale, si batterà “Nel nome del padre” per far emergere la verità.
Dall’autobiografia di Gerry Colon, Jim Sheridan trasforma una pagina di terribile cronaca giudiziaria in un film di formazione filiale e risveglio di coscienza, centellinato nel dramma, ma teso, frenetico, manicheo, arrabbiato, civilmente schierato, che denuncia l’arbitrio giudiziario di uno Stato succube della propria violenza e delle paure innescate, nel periodo barbaro ed oscuro degli scontri lnghilterra-IRA. La retorica sì, ma quella che fa bene.
Day Lewis gigante ardente, Postelwhite roccia fredda, binomio padre-figlio memorabile. Colonna sonora emotivamente portante, giustamente capitanata da Bono Vox. Orso d’oro a Berlino.44.
– Audition (1999)
Audition, basato sull’omonimo romanzo di Ryu Murakami, è una pellicola a basso budget intensa e raffinata. Un punto di non ritorno nella storia del genere horror.
Nessun tratto soprannaturale, nessun mostro per il genio di Osaka. L’umanità è sufficientemente terrificante. Miike dopo averci sapientemente rassicurato per un po’, decide di farci precipitare in un incubo dal quale non potremmo svegliarci. Audition è un’iniezione letale!
– Boogie Nights (1997)
Storia di Eddie Adams (Marc Wahlberg) lavapiatti a San Fernando Valley, scoperto dal regista Jack Horner (Burt Reynolds) e introdotto nella sua spiazzante famiglia allargata di tecnici ed artisti dell’hard.
Le montagne russe di una stella acclamata dai migliori set bollenti, passata nel dimenticatoio per l’avvento del vhs e per abuso di cocaina, costretta a raschiare il fondo prima di metter piede in un ritrovato equilibrio. Ritratto-fiume appassionante ed appassionato di un attore sui-generis, cartina tornasole di un mondo sregolato e selvatico, figlio delle Boogie Nights anni Settanta, universo vitale ed artigianale, che confondeva piani di realtà e finzione e sognava dignità artistica anche per il cinema pornografico. Affetto e sguardo amorale da parte del ventiseienne Paul Thomas Anderson, incredibile talento di rara libertà creativa, che omaggia l’altra Hollywood, dimensione specchio della propria, ma più schietta, allontanandone il cattivo folklore, con il giusto calibro tra epica, coralità e disciplina.
– Eyes wide Shut (1999)
Ambientato a Manhattan, ma ispirato al racconto Doppio sogno dell’austriaco Arthur Shnitzler, Eyes Wide Shut è il titolo ossimorico dell’ultimo capolavoro di Stanley Kubrik, un’odissea onirica e simbolica che usa la sessualità, come sintomo e metafora di un mondo distorto, contaminato e manipolatorio, in cui ogni desiderio sensuale è proiezione gerarchica di potere, valvola di sfogo di una classe in debito d’identità.
L’incomunicabilità regna nell’universo interno ed esterno alla coppia e genera trappole per il corpo e per la mente, alimentate dall’ossequio ai tabù morali con cui certo viso sociale si fa specchio. Così Bill ed Alice, Tom Cruise e Nicole Kidman, giovani, belli, ricchi, sposati e genitori di una bimba, inciampano nelle pulsioni taciute, spalancando il loro vaso di Pandora. Un magnetico turbine psicanalitico di suggestioni, sesso pensato e sesso ritratto, verità rimosse, giungle di predatori e prevaricatori, nottate allegoriche, maschere massoniche e riti iniziatici.
– Braveheart – Cuore Impavido (1995)
Pilastro dell’epica medioevale, incentrato sulle gesta di William Wallace che tra il 1200 e il 1300, guidò con esiti alterni la rivolta dei clan Scozzesi contro gli inglesi per impedirne l’invasione: prima la fortuna, poi il tradimento, dunque il sacrificio, fino alla vittoria postuma dei suoi seguaci.
Decine di comparse, lunghi mesi di riprese, budget sensazionale per l’ultima delle operazioni cinematografiche così enormi e spettacolari in stile analogico. Basato su una storia tramandata oralmente, perciò non oggettivamente verificabile, Braveheart inventa a favor di pubblico, pesca dal mito locale alla retorica classica, trascina emotivamente con la grandiosità bellica, i panorami mozzafiato, la passione amorosa e l’ideale di eroe duro e puro, irresistibile esempio di devozione alla causa.
Gibson dirige ed interpreta un super-uomo, simbolo estremo di resistenza all’ingiustizia, ferito dall’atroce uccisione della donna amata. Cinque Oscar tra cui miglior film e miglior regia; alla storia il grido “Libertà!” prima della decapitazione.
– Carlito’s Way (1993)
Carlito Brigante sconta trent’anni di carcere per spaccio: rilasciato fortunosamente dopo cinque, vuole restare pulito e rifarsi una vita alla Bahamas con la donna che ama. Ma la strada non lo perdona. Dai racconti del giudice Torres, de Palma confeziona la storia di un ex-cattivo in cerca di libertà dalla sua stessa tara che non ammette abiure.
Più si tenta la redenzione più si precipita nel male: una corsa a perdersi vorticosa, che parte con un flashback suggestivo, viaggia sul commento in sottofondo dei pensieri inquieti da boss riluttante ed arriva ad una visione onirica fatale. Al Pacino domina la scena, malinconicamente luminoso.
Carlito’s way racconta una malavita stanca, ineluttabile, ferma al cambio di guardia, un desiderio di tregua, la fine di un mondo. Teso, dinamicissimo, immersivo, il film ruota, carrella, piomba da un particolare all’altro, pronto a ribaltare la situazione spiazzando, in una frenesia-da-thriller che coniuga eleganza e suspance.
– L’esercito delle dodici scimmie (1995)
Nel 2035 la razza umana sopravvissuta ad un virus, vive sottoterra: viene spedito nel passato un detenuto affinchè raccolga informazioni su quanto successo prima del devastante contagio. Ispirato al corto Le Jetèe (1962) di Chris Marker, L’esercito delle dodici scimmie è un giallo fantascientifico, dalla trama iperbolica. Una parabola cupa e non liberatoria, che si dibatte tra post-apocalisse, flash onirici e viaggi nel tempo, incentrata sull’irredimibilità dell’uomo, parassita del pianeta e di se stesso, e sulla fallacia scientifica. Terry Gilliam si conferma un visionario esaltante, dagli intenti spericolati, scarnificatore di certezze, frequentatore di territori scomodi, capace di narrare con coraggio ed immaginazione atipici, architetto di mondi bizzarri, fotografo inventivo, scenograficamente spettacolare, esteta fuori dall’ordinario, sagace intenditore nella scelta degli interpreti. Pitt e Willis infatti, protagonisti e al contempo antagonisti, sono in ottima forma espressiva: energeticamente sovraccarico il primo, sorprendentemente toccante il secondo.
– L.A. Confidential (1997)
Los Angeles negli anni ’50 è una ragnatela euforica e marcia, agitata da gangster in guerra, droga, corruzione e prostituzione: tre poliziotti, l’ambizioso, l’aggressivo e il cinico, ognuno con una propria idea di giustizia, devono barcamenarsi in un’indagine complicata ed insidiosa, mantenendo fermi nervi, etica, pugni e rispettive vite. Dal voluminoso giallo del grande James Ellroy, una trasposizione intelligente e spietata di un lambiccato, dettagliatissimo puzzle poliziesco, dal ritmo funambolico, colmo di sottotrame e personaggi, che non perdona distrazioni. L. A. Confidential seduce come un noir vecchio-stile e travolge come un thriller contemporaneo, fotografa con stile ed affezione il mito della metropoli più pericolosa d’America, giungla instabile dove il caos è dietro l’angolo, le coscienze sono aggirabili, buoni non ce ne sono e la morale è in vendita.
Cast ben armonizzato di bravissimi, magnifica fotografia italiana, Oscar alla miglior sceneggiatura non-originale e a Kim Basinger, voce-di-soffio, miglior attrice non protagonista.