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Giri/Haji – Duty/Shame

L’incanto della scoperta. La rivelazione che il seducente intrattenimento che ci era stato promesso dall’avvento dello streaming è davvero nel dorso del nostro telecomando. Le nostre dita si muovono frettolose sui suoi tasti per ore. Poi, sfinite, si convincono che probabilmente ciò che c’era di bello da vedere lo si è già trovato. Eppure, di tanto in tanto, accade. Di incrociare in quella rincorsa a perdi fiato al titolo giusto une vera meraviglia. “Giri/Haji” è la serie più attraente nella quale rischiate di imbattervi nel consueto infinito catalogo Netflix.

Noi ci auguriamo abbiate una smisurata voglia di stanare questa suggestiva narrazione. Di cose così non se ne vedono spesso. La sensazione è di quelle che sana le ferite lasciate da numerose visioni banalmente superflue.

“Giri/Haki – Dovere/Vergogna”, miniserie prodotta dalla Sister Pictures (“Chernobyl”) è davvero qualcosa che vi consigliamo di recuperare. Un thriller poliziesco che edifica un invisibile gigantesco ponte tra Tokyo e Londra, attraversato da poliziotti frenati dal senso del dovere e gangster ispirati dal fascino del male. Al centro l’antagonismo di due fratelli, indissolubilmente legati dal sangue e dal destino, ma irraggiungibilmente distanti. Uno è detective, l’altro per errore è divenuto membro della Yakuza, e per amore ha lasciato che il crimine gli prendesse tutto.

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Andati in onda nel Regno Unito su Bbc Two, a ottobre 2019, e approdati su Netflix Italia, a gennaio 2020, gli otto episodi rincorrono le gesta di Kenzo e Yuto Mori. Uomini diversi che impareranno ad assomigliarsi, cedendo l’uno all’altro il peso del proprio inconfessabile fardello.

La serie creata da Julian Farino e Ben Chassel è una storia di gangster dalla fortissima tradizione criminale che esporteranno la propria cultura del male ben oltre le consuete terre di pertinenza. Là dove ad accendersi non sono imponenti grattacieli ma le luci rosse di Soho le cose sembrano funzionare diversamente. Eppure la regola di vita da imprimere nella mente è sempre la stessa. Fare di tutto per restare vivi. Perché se anche riuscissi a sfuggire alla ragnatela criminale della Yakuza ad ucciderti potrebbero essere la droga, il ricatto, il malinteso o persino la vergogna.

“Giri/Haji” è una serie che non si presta alle bulimiche scorpacciate di binge watching. E di questo noi le siamo estremamente grati. Ogni episodio è densissimo di suggestioni, personaggi, accadimenti e dialoghi in giapponese. Meglio accordarle il giusto tempo per entrarci dentro a scombussolarci un po’. Saremo stregati da un meltin’ pot fatale meravigliosamente restituitoci da una regia sorprendete, dalle soluzioni stilistiche policrome e multiformi.

Kenzo Mori (Takehiro Hira), detective di Tokyo dotato di molto fascino ma provvisto di poche parole, viene spedito a Londra, incaricato di rintracciare il fratello Yuto (Yōsuke Kubozuka). Tutta la famiglia lo ha creduto morto per un anno. Sembrerebbe però che il caro fratello non si sia limitato a creare guai in Giappone. Potrebbe aver espatriato la sua carica impulsiva da delinquente sino al cuore dell’Inghilterra.

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A Londra il nipote di un boss della Yakuza viene ritrovato morto con una piccola katana conficcata nella schiena. Basteranno pochi giorni a mettere in allerta il crimine organizzato di Tokyo. Qualcuno sta tentando di mandare loro un messaggio. Quella spada porta con sé la firma di Yuto.

Sono in molti a reclamare la sua testa in Giappone: una famiglia a cui deve molte spiegazioni, le forze dell’ordine nipponiche a cui dovrà rispondere per i crimini precedentemente commessi, e la stessa Yakuza a cui ha mancato di rispetto in più di un’occasione.

Giri/Haji

A Londra uno spaesato Kenzo si equipaggia di una disfunzionale e improvvisata squadra destinata a diventare una instabile seconda famiglia. Accanto a lui la figlia Taki (Aoi Okuyama), adolescente sensibile e ribelle, espulsa da scuola per aver ferito armata di forbici un compagno che allungava le mani, la poliziotta scozzese Sarah (Kelly Macdonald), il cinico gigolo gay di origini nipponiche Rodney (Will Sharpe), sempre strafatto e sempre vestito di una stravaganza piena di stile.

“Giri/Haji” rivela attraverso il dispiegarsi di intricati e numerosi viaggi narrativi la verità sui crimini di cui Yuto è accusato, i retroscena che lo hanno legato per sempre ad uno dei gruppi criminali più spietati al mondo, e le inconfessate ragioni che hanno reciso il suo rapporto con il fratello Kenzo.

Opposizione e rivalità. Chi è vittima del dovere, chi immobilizzato dalla vergogna. Kenzo e Yuto sono sempre al centro della storia. Tuttavia lo sceneggiatore Joe Barton ci omaggia con complesse numerose digressioni relative ad amabili personaggi secondari. Deviazioni che sottraggono molti minuti alla storyline principale, ma di cui finiamo per essere molto riconoscenti.

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Le atmosfere mutano con grande frequenza e il quadro si fa sempre più aggrovigliato, ma non ci verrà mai concesso di perdere l’orientamento troppo a lungo. Tutto, ma proprio tutto, tornerà ad incastrarsi in modo sorprendente, facendo della coerenza narrativa una delle numerose e valide ragioni di vanto di questa serie. Ogni personaggio saprà contribuire alla strabiliante resa finale, ognuno apportando il proprio tratto distintivo sul canovaccio narrativo. (Vi consigliamo di fare attenzione anche ai personaggi abbandonati agli angoli delle inquadrature, in “Giri/Haji” nessuna presenza è casuale).

Giri/Haji

L’eccentricità e la pluralità di racconti non sono un capriccio. La pura essenza di questa storia trae linfa vitale da ogni grottesco cambio di rotta.

C’è il classico crime thriller poliziesco che si muove ispirato fra le vie di Londra. C’è il gangster movie nipponico alla Kitano, sporcato da una stuzzicante e allucinata violenza alla Miike. (Le sparatorie nei ristoranti e quelle ammissioni di colpa in cui certe parti del corpo hanno sempre la peggio). E anche se si cammina per Soho o Fitzrovia, è sempre presente la cultura giapponese: il senso dell’onore, la sacralità della famiglia, il dovere con il suo insormontabile peso e la vergogna con il suo inesorabile tormento). Non poteva mancare anche il carattere action, quello che si alimenta a adrenalina e gang di cockney ben vestiti, come quelli con a capo Connor Abbott (un meraviglioso Charlie Creed-Miles).

In “Giri/Haji”, nonostante la sua anima sia cruda e oscura, si trova stupendamente tempo anche per il racconto di formazione, per provare a dialogare di sentimenti puri e amori acerbi. Si parla di omosessualità, di come questa sia vissuta a Tokyo, all’interno di una cultura tecnologicamente avanzatissima ma che ancora risiede barricata entro dettami di vita rigidi e intolleranti, e di come sia affrontata a Londra, dove si inneggia alla libertà sessuale nei pub ma si discrimina in famiglia e nelle periferie.

Giri/Haji

Sembra incredibile ma si trova persino lo spazio per un road movie al femminile, un po’ ironico, un po’ indie, decisamente perfetto nel riuscire a rappresentare donne vigorose, capaci di reagire al dolore, al lutto, alla fine di un amore, con coraggio e divertita e sconfinata classe.

In “Giri/Haji” abbondano le prospettive e anche le idee registiche. Mutano frequentemente le soluzioni stilistiche, modulandosi con i diversi momenti narrativi. Intermezzi animati (bellissimi), split screen, bianco e nero, flashback. Ci si abbandona anche ad una onirica sorta di stallo alla messicana, una sequenza inaspettata e poetica. Gli occhi vi ringrazieranno per averli deliziati con questa lirica in movimento, una danza a cui partecipano tutti i sentimenti dei protagonisti.

Notevoli anche gli interpreti, a cominciare da Takehiro Hira. Avvertiamo ogni tensione malcelata dietro al suo fare pragmatico e riflessivo, ogni turbamento al quale non vorrebbe cedere. Fonte di tutti i suoi crucci emotivi il connazionale Yōsuke Kubozuka (il pescatore guida dei gesuiti in “Silence” di Scorsese), perfetto nei panni Yuto, il criminale che ha avuto in passato anche buone intenzioni. Kelly Macdonald (“Boardwalk Empire”, “Okja”, e tanto altro) tenuta a battesimo da Danny Boyle con “Trainspotting”, sa vestire benissimo i panni dell’impacciata e coraggiosa Sarah, a sua volta stretta nella morsa fra vergogna e dovere.

In “Giri/Haji” tutti, persi nelle loro imperfezioni soccombono sotto il peso dei loro errori, incapaci di perdonarsi sul serio.  Vagano spaesati in luoghi che sembrano non appartenere loro. Tutti avvertendo forti connessioni con anime lontane, nate a migliaia di chilometri di distanza, cullate da un’altra cultura. Anime che cercano negli altri un po’ di sé, e rimangono aggrappate l’una all’altra provando a rintracciare un senso delle cose.

“Giri/Haji” è un poliziesco che sceglie i personaggi lasciando ai margini le azioni, che predilige dibattere di etica e coraggio, di gabbie emotive e redenzione, sapendo abilmente raggirare i limiti canonici del genere action.  Una sceneggiatura illuminata e una grande capacità di sfruttare a pieno le potenzialità del mezzo filmico, in perfetto accordo con un profondo senso dell’estetica.

Ogni parola, ogni smorfia, ogni luce che irrompe sullo schermo è necessaria all’indagine della natura umana a cui questa narrazione intende sottoporci. Un’esplorazione dell’animo di cui possiamo capire ogni cosa, o forse lasciarci confondere da ogni cosa, nella scena danzata che mette in movimento corpi, storie e poesia. In fondo che si sia persone buone costrette a fare cose cattive, o persone malvagie oppresse in buone condotte, si finisce per avere in comune molto di più di quanto si è disposti ad ammettere.

PANORAMICA RECENSIONE

regia
soggetto e sceneggiatura
interpretazioni
emozioni

SOMMARIO

Una serie thriller poliziesca che edifica un invisibile gigantesco ponte tra Tokyo e Londra, attraversato da poliziotti e gangster. A rendere unico questo racconto sono le tante soluzioni stilistiche: intermezzi animati (bellissimi), split screen, bianco e nero, flashback. Di cose così non se ne vedono spesso. “Giri/Haki – Dovere/Vergogna” è davvero qualcosa che vi consigliamo di recuperare
Silvia Strada
Silvia Strada
Ama alla follia il cinema coreano: occhi a mandorla e inquadrature perfette, ma anche violenza, carne, sangue, martelli, e polipi mangiati vivi. Ma non è cattiva. Anzi, è sorprendentemente sentimentale, attenta alle dinamiche psicologiche di film noiosissimi, e capace di innamorarsi di un vecchio Tarkovskij d’annata. Ha studiato criminologia, e viene dalla Romagna: terra di registi visionari e sanguigni poeti. Ama la sregolatezza e le caotiche emozioni in cui la fa precipitare, ogni domenica, la sua Inter.

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